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Immagine del redattorefedecaglioni

Una scribacchina bagnata fradicia #8 : Aquarius

Un tempo dicevano che sarebbe stato impossibile viaggiare più veloce della luce, che i viaggiatori sarebbero morti prima di arrivare a destinazione o che, qualora tutto questo fosse stato un’assurdità, avrebbero impiegato decenni per spostarsi nello Spazio e al loro ritorno a casa non avrebbero trovato più nessuno ad aspettarli. Ben pochi credevano nella possibilità di shuttle interplanetari così veloci da permettere viaggi di poche ore per arrivare su Plutone. Nessuno, poi, immaginava saremmo stati in grado di creare delle navette intergalattiche per superare lo spazio di miliardi di anni luce tra la nostra Via Lattea e la Galassia di Andromeda, o quelle ancora più lontane. Di fisica spaziale so quel che serve. Se schiaccio quel tasto finisco lì, se ne premo un altro mi ritrovo di là. Mi basta come istruzione ma nel dubbio lascio fare tutto al capitano e al suo vice, mentre io mi occupo di logistica e consegne. È l’ultimo viaggio per Minnie, il primo shuttle che ho acquistato con i risparmi del mio vecchio, e sarà una missione facile facile. «Quanto manca all’ingresso nell’atmosfera?» mi avvicino al capitano e gli riservo una pacca sulla spalla. Ancora una volta la sua esperienza ci ha permesso di arrivare sani e salvi. «Stiamo aspettando il permesso» afferra il ricevitore della radio e fa cenno a Terence, il suo secondo, di stabilizzare i motori. «Maledetti pesci!» sibilo, spostandomi nel corpo dello shuttle e lanciando un’occhiata fugace al pianeta fuori dall’oblò. Ecco Aquarius, situato a mille anni luce dal nucleo della Galassia di Andromeda e a 2 milioni e mezzo dalla Terra. Ecco il pianeta dei pesci. Immaginate un pianeta blu, fatto per il 90% d’acqua e dove la terra più estesa è grande quanto due hangar. La composizione dell’acqua e l’aria sono simili a quelle della Terra, un po’ più rarefatte di ossigeno, e la sua vegetazione, dove ne cresce, ricorda quella tropicale dei tempi antichi. Il suo sole, R300, è grande e luminoso quanto il nostro. Sarebbe un bel posto dove creare degli insediamenti stabili, se non fosse per gli autoctoni… I pesci, che esseri infimi! Hanno un aspetto antropomorfo ma nessuno li scambierebbe mai per umani, non con quella pelle blu e le branchie sul collo. Tra loro si chiamano e vogliono essere chiamati Eínerós, ma preferisco di gran lunga l’appellativo pesci. Come potrei mai chiamare degli esseri che possono vivere sott’acqua grazie a un secondo sistema respiratorio branchiale? Di certo non uomini! Purtroppo è su Aquarius che svolgo la maggior parte dei miei affari e devo farmene una ragione. Ciò che conta davvero è saper trattare con loro e in questi anni ho imparato che i pesci sono egoisti, spregiudicati e privi di qualsiasi emozione. Non provano empatia per nessun altro che loro stessi e sono alla ricerca dell’affare più vantaggioso, sempre. Nell’attesa dell’autorizzazione, scendo nel magazzino e con l’aiuto dei ragazzi riassesto le cinghie di sicurezza attorno al carico, dopodiché è quasi ora di sintonizzare le radio sulle frequenze dell’Alleanza. L’Alleanza, quell’immenso consiglio interrazziale e interplanetario che raccoglie i rappresentanti di tutti i pianeti e ne regola i rapporti, è l’istituzione che governa l’intero Spazio e che non permette a nessuno di rovinare i suoi affari. O ti adatti alle regole o tu e il tuo pianeta spariìte dalle carte stellari con un semplice schiocco di dita. Essere gli ultimi arrivati nell’esplorazione dell’Universo ha messo gli esseri umani allo stesso livello dei rifiuti spaziali, perciò siamo costretti ogni santo giorno a sorbirci il messaggio propagandistico di chi già viaggiava tra le stelle quando noi vivevamo ancora nelle caverne. Rientrando in cabina, il responsabile delle comunicazioni, che è ancora il capitano, mi chiede cosa fare solo con uno sguardo. Un mio cenno e nello shuttle si diffonde la voce strisciante e sibillina di Wendina Feraday, la speaker ufficiale dell’Alleanza. «… Ssss-sono le 12 e 33 qui nel ssssss-sistema sssssssss-stellare dell’Alleanza ed è ora del dissss-scorssss-so del nosssss-stro amatisssssss-simo Presssss-sidente Ssssss-siberiussss Ssssssss-stardussss-st…» Ascoltarla è una tortura! Chi le scrive i discorsi sembra mettere di proposito così tante parole con le “s”, per non parlare del nome del presidente! Un annuncio di cinque minuti fatto da Wendina Feraday ne dura almeno il doppio. «Signore» mi volto verso il posto di comando. «abbiamo un permesso di trenta minuti per atterrare» il capitano Poket mi lancia un’occhiata colpevole. Sapevo di non potermi fidare di quei dannati pesci! Sempre pronti a tirare qualche tiro mancino e a valutare quanto stupide saranno le tue mosse. Nessuno può fare nulla mentre Siberius Stardust parla ai viaggiatori intergalattici, cioè mentre li costringe ad ascoltare lo stesso messaggio registrato, tanto meno atterrare e fare scambi commerciali su Aquarius. I pesci lo sanno e stanno aspettando la mia decisione. Maledetti branchioidi! «Capitano avvia le procedure di atterraggio» ordino, prendendo posto nel terzo sedile della cabina. Poket e Terence, soprattutto Terence, mi fissano incerti. Rischiamo la galera e il tribunale intergalattico per diserzione ai valori dell’Alleanza ma non ho intenzione di darla vinta ai pesci, non durante l’ultimo viaggio di Minnie. «Capitano» il mio tono non ammette obiezioni. Non ho passato tre giorni bloccato in uno sciame roccioso per un nulla di fatto. Afferro la radio per le comunicazioni interne e schiarisco la voce prima di interrompere il discorso del presidente Stardust. «Avviso per tutto l’equipaggio: prepararsi alla procedura di atterraggio su Aquarius. Ripeto: prepararsi all’atterraggio» mi fermo senza interrompere il collegamento. «Tra 25 minuti saremo a Cape Water per effettuare lo scambio» Con l’equipaggio avvisato e le comunicazioni in entrata e uscita sospese, Poket e Terence afferrano i comandi e dirigono Minnie verso l’atmosfera della sfera blu sotto il nostro sguardo. L’ingresso va effettuato in caduta libera, con ogni sistema di navigazione disattivato per evitare che faccia interferenza con il campo elettromagnetico del pianeta. Molti sono caduti nell’enorme oceano di Aquarius per non essersi ricordati di cosa accade entrando con lo shuttle in piena attività. Fortunatamente, nessuno di noi vuole ritrovarsi in una scatola di metallo fuori uso che cade verso il suolo senza possibilità di fermarsi. «Spegnimento sistemi operativi. Riavvio tra cinque minuti» avverte il capitano. Ci siamo. Ora stiamo entrando in Aquarius. La capsula esterna dello shuttle sbatte e traballa al primo contatto con il guscio protettivo del pianeta, un’atmosfera superficiale così densa da fare resistenza anche alle navi di ultima generazione. Ho fatto questo viaggio molte volte ma non ho ancora imparato a non trattenere il respiro mentre la navicella cade alla velocità di diversi chilometri orari verso il blu più oscuro che abbia mai visto. Il cielo mi schizza accanto così rapido che temo possa continuare a farlo per l’eternità e resisto alla tentazione di chiudere gli occhi solo perché il mio vecchio mi ha insegnato che, se un uomo deve morire, lo fa guardando la morte in faccia. Era un uomo sciocco, mio padre, ma su quello ha sempre avuto ragione. «Motori antigravitazionali attivati» Terence risponde al comando ricevuto in cuffia da Poket, che aziona immediatamente la cloche e stabilizza la posizione in orizzontale della navetta. «Sistema operativo funzionante» il capitano preme due tasti in sequenza e le comunicazioni si riattivano. «… perché ogni pianeta membro dell’Alleanza conosca e ricordi i sacrifici compiuti in onore…» Siberius sta ancora stendendo il panegirico per i suoi predecessori. Non abbiamo perso molto e magari per questa volta saremo graziati. «Tempo stimato per raggiungere Cape Water?» domando, slacciando le cinture di sicurezza. «Tra quindici o venti minuti» Appoggio le mani sulle spalle di Poket e Terence, ringraziandoli silenziosamente e lasciando le manovre completamente in mano loro, e mentre la voce di Stardust si perde in un finto tono di commozione per le guerre di colonizzazione, raggiungo il resto dell’equipaggio sotto coperta. Ho ancora dei dettagli da sistemare prima di effettuare lo scambio.

*

Cape Water è il solo insediamento umano che i pesci ci hanno concesso sul loro pianeta. Nessuno può uscire senza permesso e gli arrivi sono scrupolosamente ispezionati. Minnie è parcheggiata nella zona A del naviporto e due coloni, più un pesce, la stanno ispezionando per verificare che non abbia introdotto illegalmente specie animali o vegetali di alcun tipo. Ho già abbastanza grane con i trasporti normali; dovrei essere stupido, e in cerca di morte, per provare a fregare i controlli dei pesci con merci illegali. E se anche fosse, sarebbero abbastanza piccole da poterle trasportare personalmente in una tasca o in qualcosa di simile. «Kilian Lowerell» il colono a capo della dogana scandisce il mio cognome sillaba per sillaba. Bart Breckett ed io siamo vecchie conoscenze ed ogni volta che arrivo a Cape Water abusa della sua carica per mettere a soqquadro i miei shuttle. Non siamo in buoni rapporti, non da quando ho aiutato sua figlia ad andarsene dal pianeta con uno dei pesci. Aspetta solo una buona occasione per mettermi delle manette e ficcarmi in una delle sue celle polverose. Sarebbe anche capace di consegnarmi a quegli esseri con le branchie con l’accusa di contrabbando solo per vedermi marcire dietro delle sbarre. «Bart» «È signor Breckett per te, lurido topo di fogna» avvicina il suo brutto muso fin quasi a sfiorarmi, convinto di riuscire a spaventarmi. L’alito sa di pesce come ogni volta. «Faresti bene a ricordartelo, se non vuoi che nella cabina di uno dei tuoi uomini sia trovato qualcosa di illegale» sfodera un ghigno soddisfatto. «Signor Breckett» uno dei due coloni mandati ad ispezionare Minnie ha già fatto ritorno. È il mio turno per sorridere, viste le spalle incurvate del ragazzo. «Che c’è?» si volta accompagnandosi con il bastone. Oltre ad essere brutto, Bart Breckett è anche storpio e questo versa altra benzina su quel fuoco che è il suo complesso d’inferiorità nei confronti di chiunque altro non porti il suo nome. Questo lo rende un ottimo vicino per i pesci. «Signore, lo shuttle del capitano Lowerell ha passato i controlli» sembra dispiaciuto nel fare rapporto. Quel che è certo è che è spaventato dalla reazione di quello stupido di Bart. «L’equipaggio?» «Nulla da segnalare, signore. I robot umanoidi sono in carica nelle loro postazioni» «Robot umanoidi?» adesso sta guardando di nuovo me, sorpreso e con il disappunto dipinto su quel brutto grugno che si ritrova invece della faccia. «Sono cambiate molte cose dalla mia ultima visita» sogghigno, perché finalmente non sa anche lui che non ha mai avuto l’opportunità di fregarmi. «Ora, se volete scusarmi, signor Breckett» carico il suo nome con così tanta ironia che il ragazzo sussulta. «Ho degli affari da sbrigare» Afferro il lasciapassare dalla mano incerta dell’intendente e mi avvio verso la camionetta arrivata a caricare la merce. Accanto al cofano mi aspettano già due pesci, gli stessi che mi hanno accompagnato nell’ultimo viaggio nel loro territorio. «Vedo che la vostra sovrana ha senso dell’umorismo nell’affidare gli incarichi» li canzono, assicurandomi con un’occhiata che i coloni di Cape Water stiano caricando senza fare danni. A volte, vale a dire sempre, sono dei tali incompetenti. «È un piacere rivederla, capitano Lowerell» il più anziano dei pesci, il diplomatico Poll, allunga una mano palmata nella mia direzione. Indossa quella sua ridicola tunica verde e oro. «È Lowerell. C’è un solo capitano nella mia squadra e in questo momento è a bordo dello shuttle» lo correggo in malo modo, evitando la stretta di mano. «Ci è giunta voce della grave perdita che avete subito. La nostra sovrana se ne è rammaricata molto» la voce impostata, quel suo petto tronfio finemente avvolto negli abiti appariscenti della sua carica e lo sguardo attento alle mie reazioni mi fanno capire che è solo una frase di circostanza. «Posso immaginarlo» «Ma, come il grande Yulin ha detto, “ogni perdita subita è un tassello della nostra nuova forza”» «Sulla Terra si dice “Ciò che non ti uccide, ti fortifica”. Cerchi di tenerlo a mente» lo avverto, salendo al posto di guida. «E la prossima volta mi risparmi i sermoni del vostro Gran Sacerdote, Eíneró Poll» Il pesce accanto a Poll mi travolge con uno sguardo assassino. Povero sciocco! Sono sopravvissuto a attacchi ben più pericolosi dell’occhiataccia di un neofita della guardia reale. Deve fare di meglio se vuole uccidermi. Tra i pesci i membri della guardia reale sono le peggiori scorte di questo e di tutti i mondi conosciuti. Menefreghisti, inutili e persino d’intralcio. Però uno posso riuscire a contenerlo. «Fate strada» indico a Poll e all’altro pesce i cancelli di Cape Water. Conosco la direzione da prendere per arrivare alla capitale ma la buona educazione, nonché le due guardie armate fino ai denti al posto di vedetta, mi impone di lasciare andare avanti loro. Una breve occhiata al carico attraverso lo specchietto retrovisore, una sosta per mostrare il permesso d’uscita e Aquarius si apre di fronte al mio sguardo. È davvero il pianeta blu. Sulla striscia di terra che ospita la strada di collegamento tra Cape Water e Blue Harbor non distinguo altro, a destra e sinistra, se non una distesa d’acqua che prosegue fino a perdita d’occhio, in entrambe le direzioni. Odio questo posto. E odio i pesci.Guido una camionetta dismessa lungo una strada di sole crepe e buche, seguendo le mie due guide sulla loro auto, mentre dietro il carico sobbalza vistosamente a ogni nuovo buco su cui passo. Se arriverà tutto interò sarà un miracolo, ma spero di non doverne risponderne; non voglio assolutamente risponderne. Circa dopo un’ora di viaggio, non tanto per la distanza, quanto per la velocità di crociera ridotta al minimo, avvisto il profilo basso dell’enorme struttura del porto di Blue Harbor. I raggi del sole R300 ne illuminano i tetti catarifrangenti, simili a squame dai diversi colori, e lanciano sulla strada il loro riverbero insopportabile. Non ha abitanti in pianta stabile, è solo una struttura dove i coloni e i pesci reietti lavorano, ma brulica lo stesso di vita, come i vecchi esempi di questi luoghi che mio nonno diceva di aver visto sulla Terra. Le navi dei pesci, grandi vascelli a vela e motore, vanno e vengono da ogni direzione di quel grande mare senza nome, dove sono dislocate innumerevoli città. Solo uno è ancorato e non sembra intenzionato a muoversi. Ha una grande vela triangolare che sventola dall’albero maestro, verde e oro i colori dello stemma che la fregia. È la nave diplomatica e sta aspettando me. «State attenti alla cassa» abbaio ai marinai che si sono avvicinati al carico non appena mi sono fermato di fronte alla nave, scendendo con balzo dalla camionetta. «Se la fate cadere vi appendo al trinchetto» «Non ce ne sarà bisogno, signor Lowerell» Poll compare al mio fianco insieme alla guardia reale. Grugnisco in risposta, guardando la nave con occhio critico. Non amo il mare e l’idea di salpare per raggiungere la capitale dei pesci è la peggiore che possa attuare nei prossimi minuti. Quanto pattuito mi aspetta laggiù, perciò avanti, avanti fino a Yanair.

*

Sono passati anni dall’ultima volta in cui ho messo piede nella capitale dei pesci. Quella volta, scappando più velocemente di quanto avrei mai immaginato di poter fare, giurai a me stesso che non sarei tornato prima di aver messo il mio cuore in pace per ciò che è successo. Sono passati anni e ancora non ho trovato nulla che possa placare la rabbia, eppure eccomi qui a contemplare il profilo slanciato delle torri osservatorio di Yanair, la capitale degli Eínerós, con le loro colonne tortili decorate da coralli multicolori, le finestre traslucide simili a membrane finissime e gli stendardi reali sventolanti sui pennoni. Yanair, sono passati anni da quel giorno e tu hai lo stesso sguardo. Come posso dimenticare se riporti in vita la mia memoria come se non fosse passato un solo secondo? «Venite con noi, signor Lowerell?» Mi riscuoto dai ricordi di quel giorno e raccolgo il coraggio a due mani prima di scendere. Ormai ci sono solo pesci attorno a me, sono il solo umano nel raggio di miglia. Che vada tutti secondo i piani. L’ingresso nella cittadella interna di Yanair avviene attraverso il Cammino dei Peccati, una successione di pesci ritenuti colpevoli e costretti a mostrare la loro condanna in pubblico per un periodo cha va dai due giorni ai cinque mesi, per i reati più gravi. La scelta della punizione spetta unicamente alla regina e da quel che vedo passando, negli ultimi anni sua maestà ha affinato la propria macabra fantasia. Molti dei condannati mostrano menomazioni alle membrane che uniscono le dita di mani e piedi, segno che non potranno mai più entrare in acqua finché vivranno. Per i pesci l’oceano che ricopre il pianeta è una specie di divinità con la quale possono ricongiungersi accettando la loro natura acquatica e che diverrà la loro casa dopo la morte. Tuttavia, neppure alla fine delle loro vite questi poveracci avranno pace, perché non potranno ricevere i riti funebri che spettano loro secondo la loro religione. Recidere le membrane equivale a negare loro la natura e l’appartenenza alla loro stessa specie. Sono reietti e come tali finiranno le loro vite a Blue Harbor o a Cape Water. «Sua maestà sta bene, vedo» lascio cadere la critica a questa desolazione come se nulla fosse, lanciando un’occhiata al carico, che ci segue lento, trascinato da quattro o cinque di quei reietti ridotti in schiavitù. «Ciò che decide la nostra regina rispetta la volontà degli dei» Poll agita la mano come a minimizzare la crudeltà di ciò che ho di fronte. «Non potete capire, Lowerell. Siete un umano» Capisco fin troppo bene, invece. Qui contano i valori, non la razza, ma i pesci forse fanno un’eccezione. Già, loro sono quel che sono. La corte di Aquarius è famosa in tutta la galassia per la sua magnificenza, per la raffinatezza delle sale e per lo splendore dei suoi membri e dei loro abiti. È descritta come uno spettacolo per gli occhi da chiunque abbia avuto l’onore di esservi introdotto, e posso confermare che un tempo ha avuto su di me lo stesso fascino, ma oggi sono solo un commerciante e le mie merci mi relegano, per la loro particolare natura, nelle retrovie. Non entro dalla porta principale, anzi evitiamo accuratamente la via che porta al palazzo reale e ci defiliamo verso uno degli accessi dedicate alle guardie. Basta un cenno del diplomatico affinché tutti i pesci in armatura sulla nostra strada si facciano da parte senza pensare di fermarci. Tutta questa predisposizione mi preoccupa semplicemente perché il viaggio di ritorno potrebbe non essere altrettanto agevole. Entriamo in una piccola guarnigione adiacente ai giardini interni del palazzo e avverto una certa familiarità con questo luogo. Ne ho vaghi ricordi, eppure il mio corpo sa perfettamente dove si trova e qual è la nostra destinazione. Ha una memoria sua, inscritta nei muscoli, nel sangue che li attraversa e nelle cellule, ricorda cosa troveremo a trenta passi dall’ingresso. Un cunicolo sulla sinistra, altri cinquanta passi e poi una grata con la toppa per inserire la chiave. Dietro quelle sbarre un giardino e lì, forse, colei che mi ha commissionato lo scambio. I miei occhi lo rivedono prima nella mente che nella realtà, in fiore come quel giorno e pervaso dal profumo inebriante dei fiori che crescono solo su questo pianeta e che qui chiamano loúderó. E con un’esattezza disarmante, dopo ottanta passi ritrovo la grata e il giardino, rigoglioso come quello nella mia memoria. Infimi traditori, i pesci, ma quelli reali lo sono in particolar modo. Maledizione! La guardia che ha scortato Poll estrae la chiave e ci permette di entrare nel giardino privato di sua maestà la regina. Lascia passare il diplomatico, me, il carico e altri due pesci suoi compagni, dopodiché caccia i reietti e richiude le sbarre, bloccandomi nella tana del lupo. Il solo arredo in mezzo alla natura del giardino è una panca di solida roccia di mare, coperta da coralli, e una creatura rivela a malapena la sua presenza sotto il tenue bagliore del sole, che filtra tra le chiome rosse degli alberi. È di corporatura esile, esaltata dall’abito aderente color prugna. Quel colore mette in risalto la sfumatura cerulea della sua pelle, dei suoi capelli intrecciati sulla nuca e lo splendido ovale del suo viso, dove le labbra dalla linea marcata sono piegate in un mezzo sorriso. Gli occhi adamantini puntano su di me, poi immediatamente sulla cassa alle mie spalle. Ecco, in tutto lo splendore che appartiene agli Eínerós, sua altezza reale la regina Dahlìa, un fiore velenoso tra i tanti del suo giardino. «Vostra Altezza» Poll si esibisce nel più profondo inchino possibile, ma sono convinto che potrebbe spingersi anche oltre se servisse a ottenere il suo favore. «Eíneró Poll, ben tornato» l’accoglienza è fredda benché il suo viso sembri sinceramente felice di rivedere quel verme di diplomatico. «Vedo che avete portato l’ospite che attendevo» «Come avete ordinato, Vostra Altezza» altro inchino, questa volta più contenuto. «Una regina è fortunata se può contare su diplomatici come voi» il pesce in livrea verde e oro fa per ringraziare la sua magnanima regina ma lei ne taglia il servilismo con fermezza. «Ora potete ritirarvi. Anche le guardie» Poll osa guardare Dahlìa per la prima volta, con un misto tra costernazione e incredulità, ma l’espressione di lei non permette fraintendimenti. Non cambierà idea, né tantomeno gli permetterà di restare. Un nuovo inchino del diplomatico segna la sua resa e in pochi secondi restiamo soli. Sarà un incontro a tu per tu tra me e lei. Tra il commerciante e la regina di tutto Aquarius. Conto gli attimi che si susseguono silenziosi attraverso i miei respiri e a ogni momento che passa avverto una sensazione di disagio crescente. Tremo all’idea di quel suono che lascia le sue labbra e non vorrei essere qui a sentirlo. «Kilian» Ero convinto che assistere a questa scena, lei che chiama il mio nome con la familiarità di un tempo ed io che la contemplo dall’umile posizione che mi sono guadagnato, mi avrebbe distrutto ma non è così. Sono ancora in me, non cado a pezzi. «Vostra maestà» accenno un inchino con la testa, senza distogliere lo sguardo. Non sono un suo leccapiedi, non più. «Perché sei così formale, Kilian? Siamo vecchi amici in fondo» si sbilancia, fiduciosa che nessuno sia più nei paraggi per origliare. «Un tempo, forse. Ma oggi non lo siamo più, maestà» Dahlìa sorride. «E sia, signor Lowerell. Avete ciò che ho ordinato?» Annuisco, avvicinandomi alla cassa e tagliando le corde che la tengono chiusa. Gli affari sono ciò di cui mi so occupare meglio. Ma, per ottenere un’equa partizione e non finire tra quelli che se ne tornano a casa a mani vuote, vanno condotti ad armi pari. Per questo mi beo dell’espressione che appare sul volto di Dahlìa nell’istante in cui il coperchio cade al suolo. Non dura che una frazione di secondo ma è infinitamente appagante. Un pesce esce dalla cassa e si fa avanti nel giardino, massaggiandosi i polsi per frizionare la pelle e alleviare la pressione lasciata dalle corde che lo imprigionavano fino a poco fa. Ha un portamento fiero, nonostante i vestiti poveri e malridotti. Gli occhi adamantini e la pelle cerulea sono gli unici elementi che rivelano la sua vera identità. Skepsós, primogenito della dinastia reale di Aquarius, ricondotto sul suo pianeta natio in una cassa grazie alla stessa navicella che lo fece scappare alcuni anni fa. «Tu sapevi?» Dahlìa guarda me, gli occhi fiammeggianti di una rabbia che solo io posso vedere. «È difficile non notare il tuo carico se questo singhiozza come una ragazzina» alzo le spalle ma Skepsós sorride appena. Se non fosse stato per suo figlio, non avrei mai scoperto di avere a bordo il principe di Aquarius e la sua famiglia, legati, imbavagliati e inscatolati nella mia stiva. La sorpresa scompare dal volto della sovrana e compare una maschera dura, carica di rabbia. «Vedo che il signor Lowerell ha avuto il cuore di liberarti» «Sorella, è bello anche per me vederti» Skepsós si volta e mi saluta con un cenno del capo. «E essere a casa» «Dove sono loro?» sibila la regina, preda sempre più della propria furia per un piano andato in fumo. «Intendete la figlia di Breckett e suo figlio? Li ho lasciati in una stazione dell’Alleanza mentre venivamo qui» le spiego, sfoderando il mio miglior sorriso dispiaciuto. «Ho pensato che il primo incontro del ragazzo con la regina sua zia dovesse essere posticipato a data da destinarsi» «Non ne avevi diritto!» esplode, contrariata come solo lei può essere quando qualcosa non va secondo i suoi piani. «Erano un carico e come tale andava consegnato» Skepsós fa per parlare ma lo precedo. Questa volta Dahlìa non avrà l’ultima parola. «La nave è la mia e ciò che trasporto è una mia responsabilità. Se volevate un servo, avreste dovuto chiedere a qualcun altro» Il colpo la zittisce ma non devo sottovalutarla. Presto tornerà all’attacco, più agguerrita di prima, e da una posizione di vantaggio, se solo decide di richiamare le guardie. Dahlìa respira a lungo, profondamente, tanto che le branchie sul suo collo si agitano per permetterle di immettere più aria e calmare i battiti. «È stato un mio errore» la regina ha ripreso la compostezza del suo rango. «Ma non importa. È mio fratello ad avere ciò che voglio» si volta verso di lui e lo soppesa. Sono molto simili nell’aspetto e non solo in quello; sono entrambi fieri ma Skepsós ha un maggiore autocontrollo e sicuramente più giudizio di sua sorella. «Ti sbagli» Non ho interesse nella lotta fratricida di questi due ma non so perché Skepsós ora mi stia guardando. Gli occhi adamantini trasmettono complicità. «Che significa?! Dov’è l’Anima dei Mari? È mia di diritto e…» si blocca e afferra la direzione dello sguardo di suo fratello. «Perché guardi lui?!» «Perché ho io ciò che volete» estraggo dalla tasca un anello dalla montatura di corallo su cui è incastonata una pietra traslucida. Le più belle sfumature grigio-blu la percorrono mentre la luce ne sfiora la superficie. Non appena Dahlìa ha nominato l’Anima dei Mari, ho compreso lo sguardo e la tranquillità di Skepsós. Non ha mai avuto ciò per cui sua sorella si è data pena di farlo catturare, è con me dal giorno in cui ho aiutato lui e la figlia di Breckett a scappare dal pianeta. «Tu» la regina vacilla di nuovo. «Come puoi averlo tu?!» Già. Capisco il suo stupore, la sua indignazione quasi. Ha avuto tante occasioni di riaverlo, è stato sotto i suoi occhi così tante volte che ora non puoi non sentirsi sciocca per esserselo sempre lasciato scappare. «È stato il pagamento per il passaggio che lui e Ivy Beckett hanno chiesto sulla mia nave» «Rendimelo!» ordina ed io sorrido. Non ha alcuna autorità su di me. «No» «Come osi? Sono la regina e potrei farvi uccidere all’istante se solo lo ordinassi» «Ma non lo farete, per lo stesso motivo per cui siamo soli nel vostro giardino privato» Conosco le leggi di Aquarius bene quanto lei e entrambi sappiamo, così come Skepsós, che un primogenito in possesso dell’Anima dei Mari sarebbe accolto come il vero sovrano e lei messa da parte, anche dal più fedele dei suoi servi. «Che cosa vuoi Kilian?» «Un’assicurazione» soppeso l’anello sulla mano prima di parlare. «Che lui, io e la mia nave lasceremo Aquarius, sani e salvi»

*

«Motori stazionari attivati» il messaggio di Poket si diffonde in tutto lo shuttle. «Attendiamo l’autorizzazione dell’Alleanza» Osservo il contorno del pianeta blu sotto i miei piedi attraverso l’oblò da cui lo guardavo questa mattina. Dahlìa ha accettato il mio accordo senza pensarci due volte. Non avevo alcun dubbio che la sua sete di potere l’avrebbe spinta ad assecondarmi, ma avrei gradito un po’ più impegno da parte sua. Fosse stato anche solo per un secondo, avrei voluto vederla combattere come diceva di voler fare un tempo. «Sarà anche una regina crudele» Skepsós mi affianca, sistemando gli abiti che gli ho prestato. «Ma mia sorella è una Eíneró di parola» «È presto per parlare, Maestà. Capitano vi dispiace controllare di nuovo i radar?» L’umanoide con le sembianze di Poket armeggia con i tasti, ma i puntini luminosi sul radar non scompaiono. «Ci sono sempre tre navicelle da battaglia in avvicinamento da Aquarius, signore» «Ha permesso che lasciassimo il pianeta» «Ma non lasceremo la galassia, no, se non partiamo immediatamente» continuo il pensiero del pesce rientrando in cabina di pilotaggio. «Controllate le comunicazioni dall’Alleanza e preparate le procedure per il salto nell’Iperspazio» «Come fate?» Skepsós sta guardando Poket e il suo vice. «Chiunque impazzirebbe passando tutto questo tempo con dei robot umanoidi» «Non io. Sono il mio equipaggio e sono qui, dentro questi corpi di metallo» «Signor Lowerell» «Ditemi capitano» mi sporgo tra il suo sedile e quello di Terence per controllare gli schermi. «I controlli hanno rilevato un meccanismo di corto circuito ancorato al sistema di lancio nell’Iperspazio» Maledetti pesci! Dannata Dahlìa e quel cane del capo doganiere Breckett! Ecco perché sogghignava mentre decollavo. Sapevo di non potermi assolutamente fidare di loro, ma non immaginavo arrivassero a tanto. «Venite con me» prendo il primogenito dei pesci e lo trascino fuori dalla cabina di pilotaggio. «Cosa succede?» «Dahlìa ha piazzato una bomba sui motori per l’Iperspazio per essere sicura di non farci arrivare vivi dalla vostra famiglia» spiego, dirigendomi nella parte retrostante dello shuttle, dove è ancorata la sola capsula di salvataggio. «O moriamo nel salto, o saremo catturati» «Tutto pur di non lasciarmi andare» «Anche io ho la mia parte di colpa» «Che intendete?» Siamo dentro la capsula e mi basta un solo sguardo ai caschi dell’ossigeno per capire il piano contorto di Dahlìa. Ce n’è solo uno. «Vedete quel casco?» Skepsós annuisce. «Anni fa mi ha sottoposto a una prova simile. Mise delle spore velenose nei condotti dell’aria della nave, lasciando nella capsula di salvataggio un solo erogatore, come adesso, per provarmi che, nel momento del bisogno, mi sarei comportato come chiunque altro e avrei pensato prima a me stesso che al mio equipaggio» «Che faceste?» Mi guardo alle spalle, verso la cabina di pilotaggio. «Io nulla, ma i miei uomini mi obbligarono a salire e a scappare. Li lasciai qui a morire e a farsi consumare dal fungo» mi blocco, estraendo una pistola come assicurazione. «Ora salite» Skepsós è incredulo. «No! Non vi lascio qui» «Non abbiamo scelta. Solo una persona può andarsene e dovete essere voi» gli intimo di spostarsi e lui obbedisce. «Ho giurato alla figlia di Beckett che sareste tornato da lei» «Ivy capirebbe» Scuoto la testa. «Sono comunque finito. Vostra sorella non mi permetterà di lasciare la galassia da vivo» «Perché lo farebbe?» Skepsós si ferma all’imbocco della navicella. Non abbiamo tempo, ma è sempre stata una sua peculiarità quella di dover sapere il perché degli eventi. «Perché ho spezzato il suo cuore, proprio come lei ha fatto con il mio» Il primogenito di Aquarius mi osserva ma ha la delicatezza di non chiedere spiegazioni e di questo gli sono grato. «Spero di rivedervi Kilian» «Non contateci, Maestà» lo spingo nel corridoio interno e premo il tasto per la chiusura stagna della porta. Skepsós tentenna all’interno dell’unica capsula di salvataggio, ma è troppo tardi. Non c’è modo di aprire lo sportello e tornare indietro. Appoggio una mano sull’oblò e dopo averlo visto ricambiare il saluto, attivo la sua sequenza di distacco. Cinque minuti dopo, mi trovo a osservare lo Spazio nero e desolatamente vuoto. «Capitano!» chiamo, tornando come un fulmine verso il centro di comando e prendendo posto nel terzo sedile. «Agli ordini, Kilian» esordisce e allora sorrido. Il vecchio capitano mi ha sempre chiamato per nome, il signor Lowerell era mio padre, ma dal giorno dell’incidente il suo robot è stato programmato come tutti gli altri. Era rimasto ben poco del vero Poket per trasformarlo completamente in un umanoide e anche per lui era “il signor Lowerell”. Sentirlo pronunciare il mio nome nel giorno in cui tutti noi stiamo per morire ha un sapore dolce. Sono ancora qui con me, non ho abbandonato i miei uomini e affronteremo l’ignoto come abbiamo sempre fatto, insieme. «Azionate i motori propulsivi. Direzione Iperspazio» «E il rischio esplosione?» «Non importa» allaccio le cinture, veramente preparato a ciò che sta per accadermi. Me ne vado sereno. Dahlìa non avrà mai quello che ho io in questo istante. La pace le è negata, perché ormai avrà scoperto che l’anello che le ho dato è un falso da quattro soldi. Se avessi un’altra vita, tornerei a ringraziare i cialtroni di Deviantes, il pianeta copia. «Sequenza propulsiva avviata. Salto nell’Iperspazio tra 5, 4, 3, 2, 1…» Non avverto lo scoppio dell’esplosione ma Minnie scatta in avanti in un tunnel nero e senza fine, avvolta nelle scintille più rassicuranti che mai vedrò in vita mia. È l’ultimo viaggio anche per lei. Tutti ce ne stiamo andando nello stesso momento, insieme. Ho paura, ne ho un bel po’ adesso, ma la affronto come mi è stato insegnato: ad occhi aperti.

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