Sin da quando ho memoria, ricordo di aver sempre sentito la foresta osservarmi. C’è sempre stato qualcosa in mezzo agli alberi che mi teneva d’occhio, uno spiritello dei boschi che mi faceva da guardia quando mi perdevo a giocare in mezzo alle secolari querce, tra gli alti fusti dei faggi o sotto le ampie fronde dei castagni. A volte lo chiamavo, ma nessuno mi ha mai risposto. Un giorno, però, mi è stato proibito di tornare da quell’amico invisibile. I boschi sono diventati pericolosi a causa dei lupi e i miei giorni spensierati sono finiti ancor prima che li apprezzassi appieno. Per chi vive al confine con la foresta, come mia nonna un tempo, esiste un limite oltre il quale non ci si può inoltrare. La condizione è di essere sempre in grado di vedere le ultime case del villaggio. È un compromesso necessario per la mia famiglia, altrimenti non avremmo più potuto raccogliere le piante medicinali e nessuno sarebbe più guarito. Adesso siamo rimasti mia madre ed io, e a volte Tobias, a preparare i rimedi naturali. Tra i tre, solo io conosco alla perfezione la foresta e so dove raccogliere le piante giuste. Ho cercato di insegnarlo anche a Tobias, ma non ne riconosce molte e se si inoltra troppo perde il senso dell’orientamento. Non gliene faccio una colpa; è stato abituato a cacciare restando vicino al villaggio e nessuno lo ha mai portato oltre una certa distanza. Lui le regole le rispetta, non fa come me. Io sono la ribelle, quella che Tobias ha sempre protetto quando mi avventuravo troppo lontano e non ritornavo prima che fosse buio. Lui ha sempre detto che veniva con me, ma mi aspettava su una roccia per ore finché io non tornavo. Anche adesso mi copre quando sparisco per un intero pomeriggio e rientro con la borsa carica di piante che non crescono da nessuna parte se non nelle profondità della foresta. Mia madre finge di crederci, ma non farebbe comunque nulla per impedirmi di andare dove è proibito. Sa meglio di me quanto quelle piante servano al villaggio. La foresta è casa mia. Ho smesso di credere alla favola dello spiritello, ma sono certa che non mi accadrà nulla di male finché sentirò su di me lo sguardo degli alberi.
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La giornata di raccolta non poteva iniziare in modo peggiore. L’autunno è arrivato con due settimane d’anticipo quest’anno e le erbe tardive sono già state tutte rosicchiate. Sono le preferite degli animali che vanno in letargo, perché hanno un potente effetto calmante e aiutano ad assimilare il cibo più lentamente, così da non consumare tutte le scorte. Ne vendiamo molte durante la stagione fredda ma se non riuscirò a trovarne abbastanza, il prossimo inverno molte famiglie si ritroveranno con le dispense vuote. È il quindicesimo anno che le provviste vengono razionate a partire dai primi freddi; lo facciamo per non andare a caccia troppo lontano dai confini del villaggio. Serve per proteggerci dai lupi che infestano i boschi. I vecchi e i bambini credono alla leggenda dei Figli dei lupi, una vecchia storia su alcuni uomini che bevvero il sangue dei lupi per ottenere l’immortalità. Alcuni sono convinti che vivano nella foresta attorno al villaggio, ma io non ho mai incontrato nessun essere metà umano e metà lupo; altri dicono che un solo lupo si aggiri tra gli alberi e assuma le sembianze di un uomo prima di rapire chi si perde nella foresta e divorarlo. Non credo più a certe storie da bambini. Io non ho paura del lupo cattivo. Controllo il cielo per decidere cosa fare. Il sole ha da poco superato la metà del suo arco e mi restano circa due ore buone di luce. Per arrivare fin qui ho camminato per tutta la mattina ma il ritorno dovrebbe essere più veloce. Dovrei tornare, perché non voglio rischiare di passare i cancelli con il buio e dover rispondere alle domande dei sorveglianti. Ma nella borsa ho solo una manciata di erbe tardive e se non ne cerco altre subito, potrei non trovarne più. Andrò avanti ancora, finché non sarò in cima alla collina, e se non troverò niente nemmeno lì, mi metterò in cammino per rientrare. Con un po’ di terra copro i segni che ho lasciato ai piedi del castagno dove mi sono fermata per mangiare. Prima di andarmene raccolgo un po’ di corteccia con un coltello, infilandola in una scatolina di ferro. È da un po’ che mia madre me la chiede per tingere dei vecchi vestiti. E possiamo anche usarla per preparare dei decotti contro il prurito. La collina non è molto alta, ma impiego un altro quarto di sole per arrivare fin sulla sommità. La raccolta non ha dato i frutti che speravo e una volta arrivata su un terreno abbastanza pianeggiante, dove scorgo alcune piantine di erica che possono esserci utili, ricontrollo la borsa e mentalmente annoto le quantità di medicine che potremo ricavarne io e mia madre. Con venti piantine di erbe tardive non arriveremo che a metà dell’inverno prima di finirle. Le radici di artemisia che ho trovato appena uscita dal villaggio bastano per gli infusi calmanti e non sono mai in molti a chiederli; di bardana non ne ho raccolta tanta, ma non sarà un problema né cercarne altra, né terminarne le scorte; e infine i fiori di calendula, ottimi per piaghe e piccole ferite, dureranno abbastanza da permetterci di arrivare a primavera senza correre il rischio di finirli. Ho trovato molte piante utili, ma quelle di cui avevo più bisogno sono già state prese. Sarà un inverno difficile per tutti. Dopo aver raccolto l’erica, ricomincio a scendere dal lato nord della collina, così arriverò a casa passando dal cancello sorvegliato da Tobias. Con un registro che tiene nota dell’ora in cui si esce e rientra, ho bisogno di tutto l’aiuto possibile per tenere segrete le mie escursioni. Il terreno da questa parte è più scivoloso e devo fare molta attenzione a dove metto i piedi, tanto che più di una volta sono costretta ad appoggiarmi ai tronchi dei faggi per non scivolare. Quasi verso la fine del declivio mi fermo a riprendere fiato. La pendenza è aumentata molto negli ultimi metri e qua e là sono sparpagliati dei grossi speroni di roccia, oltre i quali la collina sprofonda a precipizio. Se cadessi da uno di quelli mi farei molto male, perciò percorro con lo sguardo la foresta che mi circonda alla ricerca di un lato dolce da cui scendere. Trovo un punto che fa al caso mio proprio vicino a uno di quegli speroni; è una decina di metri alla mia sinistra, leggermente più in alto rispetto alla mia posizione. Se mi spostassi obliquamente lungo il fianco della collina, dovrei raggiungerlo senza scivolare troppo a valle. Un ululato mi fa trasalire. È troppo presto per i lupi. Il sole dovrebbe tenerli lontani ancora per un po’ di tempo. Spostando il cappuccio sulle spalle, inclino la testa all’indietro. Il cielo è ancora limpido e luminoso, perciò non capisco perché siano già usciti dalle loro tane per andare a caccia. Devo trovare il sole per sapere quanto… Non c’è sole. Sono sul lato nord e qui le piante sono troppo alte perché la luce riesca a filtrare attraverso i loro rami dall’altro lato della collina. Per questo i lupi sono a caccia. Se resto qui sarò la loro cena. La terra è una distesa di muschio umido, erba bagnata e sassi scivolosi ma mi metto lo stesso a correre, salendo in diagonale fino allo sperone di roccia e prendendo la depressione più dolce per arrivare in fondo al pendio in fretta. Mi sposto tra gli alberi con movimenti precisi e rapidi, appoggiando le mani ai fusti degli alberi per rendere la corsa più stabile mentre appoggio i piedi sulle loro radici. Nessun lupo ha più ululato ma ho passato troppo tempo tra questi alberi per non riconoscere i suoni prodotti dai loro artigli contro la roccia, per non sentirli affondare nel terreno ad ogni mio respiro. Vicini, i predatori sono sempre più vicini. Avverto i ringhi soffocati nelle loro gole, lo scattare delle fauci per afferrare l’aria che mi lascio alle spalle. Sono due, no, tre e mi hanno raggiunta. La prima zampa mi sfiora la spalla nell’istante in cui i miei piedi raggiungono la parte pianeggiante della foresta. Mi lascio andare ma è troppo tardi per salvare la tracolla della borsa, che cade a terra con pezzo di stoffa della mantella. Non sono ferita per fortuna. Dovrei rialzarmi subito e correre verso casa ma lì dentro ci sono i frutti di una giornata di lavoro, le piante officinali che servono al villaggio per passare l’inverno. Non posso lasciarla qui. Il lupo che mi è balzato sopra la testa non si è ancora spostato dal punto in cui è atterrato dopo avermi mancata; ringhia come un forsennato verso di me, il muso basso a sfiorare il terreno, in attesa del momento migliore per saltarmi addosso. Dove sono gli altri due? Uno scricchiolio su una roccia alle mie spalle mi avverte che sono ancora qui. Qualcosa fruscia vicino al mio orecchio e un gigantesco lupo nero mi passa accanto, con il passo lento di una creatura superiore. I suoi occhi gialli mi inchiodano a terra mentre mi oltrepassa, paralizzandomi con un brivido lungo la schiena. E poi lo vedo. È accovacciato sull’ultimo sperone di roccia della collina, il volto nascosto da una maschera di lupo e le spalle coperte da una grossa pelliccia argentata. Le braccia sono protese in mezzo alle gambe per restare aggrappato alla punta della protuberanza che spunta dalla terra; le sue mani, affusolate e bianche come la luna, assomigliano a enormi artigli e dietro le labbra leggermente aperte si nascondono dei denti affilati come zanne pronte a squarciarmi. Il primo lupo che mi ha attaccata ringhia con più rabbia e affonda gli artigli nel terreno quando quella creatura si mette in posizione eretta sulla roccia. La mano si piega all’indietro ed estrae un’ascia da sotto il mantello di pelliccia. Devo andarmene, subito. Con il piede trascino la sacca finché non è a portata di mano. La tracolla della borsa è inutilizzabile, quindi la stringo al petto mentre mi inginocchio e mi alzo con gesti lenti. Uno strattone della mantella mi costringe a piegarmi di nuovo. È incastrata tra le radici di un albero. Allento il cordino alla base del collo e lascio che scivoli giù dalle spalle, ma adesso che sono libera di andare una sensazione che conosco fin troppo bene si fa strada nel mio corpo. La foresta mi osserva e l’ho sempre pensato, eppure chi adesso mi sta fissando non sono gli alberi, bensì la creatura per metà umana e per metà lupo. Le sue labbra si dischiudono, disegnano un imperativo silenzioso e io lo ascolto. Scatto in piedi, attirando l’attenzione dell’unico lupo che vuole attaccarmi, e riprendo la corsa. Lo sento che si lancia al mio inseguimento, ma i suoi passi sono disturbati dalla presenza delle altre due creature. Avverto il suo fiato caldo sul collo solamente una volta, quando sono costretta a deviare leggermente verso di lui per evitare una depressione nel terreno. La riconosco. Ci sono caduta una volta da bambina. La sagoma nera del secondo lupo si frappone fra me e il predatore, tenendolo a distanza, mentre l’altra creatura salta alle sue spalle e gli assesta un fendente con l’ascia alla base del collo. Tutto tace in un istante e io resto la sola a correre verso l’uscita della foresta. Raggiunti gli ultimi alberi mi fermo per guardarmi indietro. Non c’è nessuno. L’enorme lupo nero e l’uomo sono spariti. È successo realmente? Sposto un piede di nuovo nei boschi ma un ululato secco e minaccioso mi ghiaccia il sangue. Stringo la tracolla rotta tra le mani e riprendo la strada verso casa.
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