Buongiorno!
La mia sorpresa di Natale è il racconto per la Storytelling Chronicles, la rubrica di scrittura creativa creata da Lara de La Nicchia Letteraria (e con grafica di Tania di My Crea Bookish Kingdom) e che ogni mese ruota attorno a un tema diverso! A dicembre ho avuto io l’onore di scegliere il tema e ho pensato che Qualcosa di rubato potesse essere una sfida interessante, visto che sotto Natale si è tutti più buoni 😈
Protagonisti di questo racconto sono Ginevra e Stefano, nati qui il mese scorso e che non avevano ancora esaurito tutto il loro potenziale con una sola storia! Io mi sono “leggermente” lasciata trascinare da questi due nerd 😅 spero vi piaccia.
Ginevra la ladra
L’ha invitata! Alla festa della Vigilia. A casa nostra. A casa mia! Già che Stefano abbia avuto il fegato di presentarsi qui, sorridente e smagliante e con il suo profilo impeccabile quanto spigoloso, è una pugnalata in piena regola. Non ci parliamo da giugno, da una festa in piscina a casa di suo cugino Roberto e da una scenata di proporzioni epiche perché, a detta sua, il mio costume era di tre taglie più piccolo di quello che avrei dovuto indossare. Stronzo di un Benji! L’avevo indossato perché era dello stesso colore dei suoi occhi, quel grigio-blu così particolare da essere inimitabile, e lui se n’è uscito con un commento del genere. Se mi avesse dato della balena mi sarei arrabbiata meno. No, mi sarei incazzata lo stesso, ma almeno gli avrei rifilato un gestaccio prima di tuffarmi in acqua a bomba. Invece, ho finito per indossare il prendisole e restare a bordo piscina, a chiacchierare con Ale, un amico della sua vecchia squadra di nuoto, bloccato da un gesso tutto scarabocchiato. Sei mesi. È passato così tanto da quando ci siamo rivolti la parola, o una frase che andasse al di là di un qualche verso contrariato (io, la finezza fatta persona) e una mezza parolaccia (lui, che comunque è nel torto marcio!). Eppure ha avuto la faccia tosta di presentarsi comunque a casa dei miei, con i suoi e lei, l’assistente del corso di estetica. Ormai, con tutte le volte che abbiamo frequentato ognuno la casa dell’altro, anche i nostri genitori sono diventati amici nel corso degli anni, e hanno pensato di continuare la tradizionale festa della Vigilia tutti insieme, visto che noi domani raggiungiamo i parenti fuori città e passeremo le vacanze dai miei nonni in campagna. Anche. Se. Sanno. Che. Non. Ci. Parliamo! Mamma mi lancia un’occhiata di scuse. Traditrice. Sapeva che avrebbero portato una persona in più e non me l’ha detto. Forse voleva evitare che mi trasformassi in un Grinch verde e orrendo, ma mi ritrovo a fumare lo stesso di rabbia, lo sguardo truce che vorrei piantare addosso al mio “migliore amico” costretto a incenerire un bicchiere di prosecco. Che è pure buono, e io non riesco a godermelo per colpa sua. «Se guardi il tuo bicchiere ancora per un po’, Gwen, finirai per far andare a male il vino» mia sorella Morgana mi prende a braccetto e fa tintinnare il suo bicchiere con il mio. «Coraggio sorellina, hai il nome di una regina.» I nostri genitori sono fissati con il ciclo arturiano, ma da bravi figli del Sessantotto, lo hanno reinterpretato in senso femminista, dando a me e mia sorella i nomi delle due donne che, con la loro indipendenza, hanno portato alla rovina del regime patriarcale di Camelot. «Ti ricordo che, le nostre omonime, hanno distrutto un regno» bevo quasi tutto il prosecco d’un fiato. «Fatto di maschi prepotenti e bigotti, che hanno rubato loro il diritto di esprimere chi erano davvero e di amare chi volevano» borbotta, imitando la voce di papà, e io non riesco a non ridere. Da piccole, a lei con i suoi otto anni e a me con i miei sei, ci avrà ripetuto quella frase almeno un milione di volte, assicurandosi che capissimo il concetto meglio delle nostre coetanee, con i loro giochi tutti identici o con gli interessi e gli hobby stereotipati. Niente danza classica, se non avessimo voluto (e non abbiamo voluto!), ma rugby per Morgan e karatè per me. Che poi mia sorella abbia smesso appena si è resa conto che le piaceva di più guardare i rugbisti e commentare le loro partite è un altro discorso…Io, invece, ho appeso al chiodo la mia cintura nera quando il Dottore ha detto: “Think you’ve seen it all? Think again. Outside those doors, we might see anything. We could find new worlds, terrifying monsters, impossible things. And if you come with me… nothing will ever be the same again!”. E no, non era un medico, ma il Dottore, l’alieno dalle tante facce che ha aperto le porte del Tardis e mi ha fatta innamorare della fantascienza. «Quindi tu e Stefano ancora non vi rivolgete la parola?» «Prossima domanda, vostro onore» la imploro, assicurandomi l’occhiata indagatrice che farà di Morgana Delilah Estri un ottimo giudice. Se finirà per laurearsi. «Non voglio rovinarmi la festa.» «Lo stai già facendo. L’anno scorso, a quest’ora, vi eravate già eclissati a guardare quella cosa in streaming.» «Era lo speciale natalizio di Doctor Who» puntualizzo, pentendomene subito perché mi ritrovo a guardare Stefano. Chiacchiera con papà, l’assistente di estetica e i nostri vicini, i Bianchi. Hanno una figlia, Chiara, dell’età di Morgana, e un figlio, Federico, un diciottenne tutto pelle e ossa che controlla il cellulare ogni tre per due. «Se solo ci fosse anche Chiara…» Almeno non penserei al Natale dell’anno scorso, a come sia bastato uno sguardo al mio amico per leggerci nel pensiero e sparire in camera mia. Siamo rimasti sdraiati sul mio letto al buio, la luce azzurrognola del pc che ci faceva sembrare dei fantasmi mentre Primo, Decimo e Dodicesimo Dottore assistevano alla tregua di Natale della prima guerra mondiale. «Febbre durante le feste» Morgan fa una faccia inorridita prima di bere. «Non la invidio.» «Io sì» e svuoto ciò che resta nel bicchiere in un sorso. Me ne verso un altro, gli occhi che guardano ovunque meno che sulla bionda che mi ha rubato il mio Benji. Fa niente se non è stato mai davvero mio, né che non ci parliamo per una ragione che non ha niente a che vedere con lei, ma mi ha sottratto la possibilità di poterlo avere. «Fortuna che abbiamo già mangiato» commenta mia sorella, i lunghi capelli castano-rossicci che le ondeggiano sulla schiena ed esaltano la sua carnagione chiara, insieme all’abito aderente verde. Lei ha ereditato i colori della mamma, i tratti più gallesi della nostra famiglia mista, mentre io arrivo diretta dalla linea di papà, i lineamenti classici della nonna e la sua tipica “bellezza all’italiana”, con un viso squadrato e capelli neri. Gli occhi, almeno quelli, sono verdi, e secondo nostra madre sono della stessa tonalità delle colline dov’è cresciuta. «Mor-Mor» sussurro il soprannome che le ho affibbiato da piccola, quando non pronunciavo bene le parole e Morgana si stancò di essere chiamata “Ana”. Adesso lo uso se mi serve un favore, uno particolarmente scomodo. «Cosa ti serve?» solleva gli occhi al cielo, sbuffando perché sa che ho davvero bisogno di lei adesso. «Mi copriresti? Mi vado a chiudere in camera e sprofondo…» «Nell’autocommiserazione? Gwen non dovresti farlo. Se non vede quanto sei speciale, allora è un cretino.» «Chi sarebbe un cretino?» La domanda sorpresa e interessata di Sandra, la mamma di Stefano, ci fa scattare, portandoci a guardarla come se ci avesse colte con le mani nel sacco dei regali prima del tempo e valutassimo quanto poterle mentire. Ma non è lei che finisco per fissare. Perché il cretino in questione ci ha raggiunte con la sua accompagnatrice e mi soppesa dalla testa ai piedi, le labbra che si piegano come se volesse dirmi qualcosa. O peggio, come se stesse per chiedere se è lui l’oggetto della nostra conversazione. Per fortuna c’è Morgana che mi salva. «Un compagno di università di Gwen.» Come non detto. Stefano li conosce abbastanza bene quasi tutti e quel luccichio nei suoi occhi di tempesta mi prepara a ciò che sta per chiedere. «E chi sarebbe?» “E perché non me ne hai mai parlato, Holls?” è quello che leggo tra le righe, nella sua voce appena più secca e nelle dita che tamburellano sugli avambracci tesi. «È nel mio corso di letteratura antica» mento, sviando il contatto visivo per concentrarmi sul prosecco. «Ti starebbe simpatico. Ha stroncato la mia analisi su Saffo.» Anche lui. Avrei dovuto aggiungere un “Anche lui” per renderlo credibile e infatti Morgana stringe appena la presa del braccio attorno al mio. Un segnale per l’evidente falla nella mia bugia. Ecco perché so che sarà brava nel suo lavoro. Ma per fortuna nessuno vede il suo cenno, anche se gli occhi di Stefano non smettono di puntare sul mio braccio e sul polso lasciato scoperto dalle maniche a tre quarti del vestito. È di lana bianca, calda e spessa, con un motivo a intreccio che segue le linee del corpo e le mette in mostra, per una volta. Di solito vesto più comoda e forse avrei dovuto farlo anche oggi, vista tutta l’attenzione che sembra attirare. Se se ne esce con un’altra critica, giuro che gli rovino la collezione di Star Trek e… No, possiede delle stampe rare, non posso rovinarla. Al massimo gliela rubo. Sì, mi trasformerò nell’anti Babbo Natale! Per lui e… «Stefano mi ha detto che vuoi diventare editor dopo la laurea.» Chi? Ci metto un secondo in più a capire che il sorriso cordiale dell’assistente è rivoluto a me, così come la sua non domanda. Come pure mi stupisco di come tutti si siano dileguati, lasciandomi sola con lei e Stefano. Morgan, infatti, ha accompagnato Sandra da nostra mamma. Traditrice numero due. Mi costringo a stamparmi in faccia un sorriso – falsissimo – mentre lei aspetta la mia risposta. I boccoli biondi splendono sotto le luci di Natale, e sembra una ragazza simpatica, davvero, se solo non la detestassi per quel suo modo di stare vicina a Benji, fin troppo vicina. «È l’idea, sì» lancio all’interessato un’occhiata che spero gli trasmetta la mia insofferenza per la sua presenza qui. «Avete parlato di me?» Lei ride, un suono aperto e per niente stronzo. Sembra davvero divertita. «Stefano è monotematico. Da quando è tornato dal primo giorno di scuola alle superiori, non ha fatto che raccontare di te.» «Addirittura?» incrocio le braccia al petto, ricordandomi all’ultimo di non assottigliare lo sguardo perché non porto gli occhiali e si vedrebbe. Perché non li ho messi? No, lo so il perché. Ero certa che Stefano non sarebbe venuto, quindi non ne avevo bisogno. Non mi servono per vedere, non più, ma li ho tenuti per una semplice ragione: con gli occhiali è più facile nascondermi ed essere Holls. È più facile passare per la nerd che tutti conoscono. «Certo, ho sentito parlare così tanto di te che mi sembra di conoscerti da una vita.» «Anche Gwen ti conosce» commenta il genio e il mio sopracciglio si alza, incredulo. «È Sarah, la…» «L’australiana permalosa che ha passato un’estate qui come ragazza alla pari e non se n’è più andata» allunga una mano e la sua stretta è ferma quando trova la mia. «Non ci credo che abbiamo impiegato tanto a conoscerci davvero.» Questa è Sarah? È una figura mitologica, cioè so che è un’amica della famiglia di Stefano da tipo dieci anni ma non c’è mai stata occasione di conoscerla perché ha passato più tempo a Roma a studiare che qui con loro. «Ma sei anche l’assistente del corso di estetica» il colpo di genio, sul serio. Potrei suonare più patetica? «Sì, mi hanno confermata lo scorso marzo. Non dovrei dirtelo, ma il tuo esame è quello che mi è piaciuto di più. Davvero accurato» mi fa l’occhiolino e Stefano sbuffa. «Grazie» arrossisco, accorgendomi della curiosa occhiata di fuoco che il mio amico le rivolge e che la fa ridere. «Quindi… c’è un ragazzo all’orizzonte?» chiede Sarah, prendendomi a braccetto e spostandomi un po’ in angolo per chiacchierare senza essere disturbate. Quando cerco Stefano con lo sguardo per vedere se ci segue, lei mi sprona a lasciarlo perdere. «Non ti impicciare, tu» lo blocca, ridendo quando lo vede rabbuiarsi. «Allora» Sarah insiste, sorseggiando il suo prosecco, «questo compagno di corso che non ti vede…» «Non è nessuno, davvero. Mia sorella ha…» La luce scompare all’improvviso, tra “Oh” sorpresi e mio padre che subito cerca di tranquillizzare tutti. Una mano mi sfiora il polso, stringendolo e tirandomi indietro, mentre un palmo mi preme sulle labbra e mi impedisce di urlare. Appena un sussurro mi raggiunge l’orecchio, però, sento il respiro farsi irregolare. «Ti sto rapendo. Anzi, ti rubo dalla festa di Natale dei tuoi.» Non ho il tempo di chiedere a Stefano se sia diventato scemo di colpo, o che intenzioni abbia. Mi ritrovo trascinata per l’appartamento dei miei, la direzione incerta anche se il mio “ladro” sembra sapere bene dove muoversi. Vorrei ricordargli che non ci parliamo davvero da sei mesi ma, ovvio, non sposta la mano dalla mia bocca finché, a tentoni, non mi rendo conto che è riuscito a farci entrambi uscire dal portone d’ingresso. L’aria gelida del pianerottolo mi fa rabbrividire, ma almeno la luce qui funziona e mi permette di mettere a fuoco l’espressione divertita del mio migliore amico. E il calore che trasforma i suoi occhi in una burrasca pronta a esplodere. «Adesso tolgo la mano, Holls» mi avverte, la presa attorno al polso che si allenta e svanisce per un secondo, «ma ti prego non urlare.» Le sue dita si allontanano, come promesso, ma sono ancora arrabbiata con lui e non ho intenzione di assecondarlo. «E secondo te…» Il mio sfogo si affloscia in un borbottio incomprensibile quando mi piazza un pezzo di stoffa sulla bocca e inizia a legarlo sulla nuca. Le sue braccia mi avvolgono la testa, tuttavia questo non mi impedisce di scuoterla per rendergli le cose difficili, le mani che schizzano sulle spalle di Stefano per spingerlo via. Ma. Lui. Non. Si. Schioda. Odioso nerd fissato con il nuoto che non è altro! «Ti ho chiesto di non urlare. Se mi avessi assecondato, questo bavaglio» dice, tirandone i lembi per stringerli bene, «non sarebbe stato necessario.» «Mavavanfulo» ecco la finezza e la classe, anche se sono palesemente in difficoltà. Metto il muso, per quanto mi riesce con questo coso in bocca, e incrocio le braccia al petto. Stefano ridacchia per il mio insulto storpiato e mi sposta i capelli dal viso, liberandomi dalle ciocche cadute in avanti. Restare ferma adesso sembra così facile. Già, chi me lo fa fare di allontanarmi da qui? «Però ti conosco, quindi sono uscito preparato» sfila dalla tasca dei jeans una specie di maschera per dormire e me la mostra. «Per fortuna che non hai gli occhiali. Aspetta, perché non li porti?» borbotto e lui scuote la testa. «Me lo spieghi dopo.» Mi copre gli occhi e un piccolo attimo di panico mi destabilizza. Al buio e sul pianerottolo delle scale non è una combinazione sicura per me, nemmeno se sento le mani di Stefano sulle mie e mi guidano. Giuro, se potessi guardare la scena da fuori, soffocherei per l’ansia. Perché quel decerebrato riesce a farmi scendere ben tre piani, tra i miei mugolii tesi e le sue rassicurazioni mezze divertite. Ma non contento di avermi trascinata fuori da casa, completa l’opera uscendo direttamente in strada. «’teao!» mi lamento, con la pelle d’oca su ogni centimetro del corpo. «Non ho calcolato che indossassi un vestito, scusa. Ci mettiamo un attimo» mi tira accanto a sé e lo sento armeggiare con qualcosa. Poi una portiera si apre e mi ritrovo seduta credo nella parte posteriore di un’auto. No, un taxi o qualcosa di simile, visto che il mio migliore amico mi segue a ruota e si sistema accanto a me. «Hai dovuto imbavagliarla davvero?» Mi tendo alla voce che se ne sta alla guida. Perché è quella di suo cugino, che si è fatto complice di questo assurdo furto. «Te l’ho detto che era ancora arrabbiata con me» un braccio di Stefano mi avvolge le spalle e mi stringe a sé. Il suo calore è una tentazione ma sono troppo furiosa per volerci restare. Gli tiro una gomitata nelle costole, ma pare non fargli nemmeno il solletico. «Dai, parti Roby. Così ti libero» mi avvolge ancora di più quando cerco di scuotermelo di dosso. Si abbassa fino a sfiorarmi l’orecchio. «Tu invece sei la refurtiva di stasera.» «Mavav…» rinuncio, tanto non suonerebbe abbastanza convincente e comunque ha capito. Nel viaggio in macchina nessuno mi lancia qualche indizio su dove voglia portarmi, né parlano i due mascalzoni. C’è solo la radio accesa e tutti i miei pensieri che si sbizzarriscono sulla vendetta perfetta contro Benji. Perché non può farmi questo. Ho passato le ultime settimane a piangere perché non riuscivo a perdonargli di avermi lasciata in disparte, di essersi permesso di farmi sentire inadeguata quando io credevo, e speravo, di essere più carina. Volevo essere un po’ più Ginevra, con un costume e dei vestiti più femminili, e meno Holls, l’amica nerd con la quale parlare di tutto. E adesso lui mi rapisce… pardon, ruba, convinto di poter fare che? Rimediare? Chiedermi scusa? Tanto so che non ci sarà mai un vero miracolo di Natale. Non per noi. Me ne sono accorta l’anno scorso. Entrambi sdraiati sul mio letto e Stefano non ha mosso un dito. Nemmeno. Per. Sbaglio. Quindi tutto il girarci in giro e quel desiderio nascosto non sembrano nulla che valga la pena approfondire. Ho quasi le lacrime agli occhi quando la macchina si ferma e Roby saluta entrambi. Lui scende ma noi no, e sento gli occhi color tempesta di Stefano puntati addosso. Poi la sua mano mi sfiora i capelli e la nuca, indugiando sul nodo del bavaglio. «Sai» esita mentre lo scioglie con lentezza «che hai avuto le mani libere per tutto il tempo?» Certo che lo so. Le sollevo a mezz’aria, agitando le dita per sottolineare che ne sono ben consapevole. «Ok, era giusto in caso non lo avessi notato.» «Non sono stupida» commento piccata quando finalmente sono libera. Cioè, non sono stupida fino a quel punto. Lo sono abbastanza da dargli corda anche se sono arrabbiata con lui e le mie speranze di sembrare una ragazza attraente sono ad anni luce di distanza da me. «Vero. Però la benda resta.» «Come desidera, padrone» ci metto tutto il sarcasmo e il fastidio che provo in questo momento, ma lo sento lo stesso trattenere il respiro. «Cretino!» Scoppia a ridere e anche io non riesco a trattenere un mezzo sorriso. Tempo fa, all’uscita della trilogia delle Sfumature, abbiamo preso in giro mia sorella fino alla noia per il suo interesse morboso per l’attore che interpreta Christian Grey. «Non sapevo piacesse anche a te quella roba, Gwen» mi afferra la mano e scendiamo. «Sei piena di sorprese.» Non rispondo; è troppo grande il rischio che si metta a ridere se scoprisse chi è che mi piace in realtà. Mi concentro sul capire dove siamo. Dal freddo appena accennato e dal ticchettio dei miei tacchi sembra un qualche tipo di parcheggio coperto, che attraversiamo in pochi minuti e ci ritroviamo in un ascensore. Be’, mi rendo conto che lo è quando lo sento salire. «Ringrazia che non sono debole di stomaco» lo apostrofo, senza però sottrarmi alla sua presa. «Altrimenti bendarmi gli occhi non sarebbe stata un’idea geniale.» «Secondo te non ci ho pensato? E mi sono anche preoccupato degli occhiali. Hai le lenti?» «No» lo sento guardarmi, come se fosse un tocco reale. È stupito e poi quello stupore si trasforma in curiosità e dubbio. «In realtà non mi servono più. Quelli che porto hanno le diottrie a zero.» «E perché li porti allora?» Quanto accidenti ci mette a salire quest’ascensore? Se si fermasse potrei evitare di rispondere e di lasciarmi rubare questo sciocco segreto. «Ginevra?» «Una volta sono venuta a scuola senza. Non mi servivano più, quindi perché portarli? Li trovavo anche un po’ da maschio e non mi hanno mai fatta impazzire» spiego, optando per un giro piuttosto largo. «Poi però sono entrata in classe e tu mi hai chiesto perché non li avessi. Hai detto che non c’era Holls senza occhiali, allora mi sono inventata di aver messo le lenti» mi stringo nelle spalle, ringraziando il cielo quando finalmente sento la cabina fermarsi. «Tutto qui.» «Porti degli occhiali che non ti servono per quello che ho detto io?» Ok, detta così sembra una ragione stupida. Ok, forse lo è, ma non mi sembra un crimine trincerarsi dietro a una cosa piccola come un paio di occhiali pur di evitare che finisca il nostro due di complici. No? Evito di rispondere e Stefano mi sprona a seguirlo. «A Natale non si deve essere più buoni?» «La bontà è sopravvalutata, Gwen. Quest’anno vincono i ladri, non Babbo Natale.» Sbuffo, ma devo mordermi il labbro per non sorridere. «Posso sapere dove siamo?» «No. Dovrai aspettare che scatti la sindrome di Stoccolma prima che te lo dica.» «Quella è per i rapimenti» lo correggo, incespicando appena all’idea di cosa implichi quella sindrome. «Tu hai detto di avermi rubata.» «Giusto. Be’, va riadattata al furto allora.» «Stefano…» «Eccoci» mi interrompe, armeggiando con un mazzo di chiavi che tintinnano. Una serratura scatta e mi sento sospingere in avanti. «Pronta?» «Per cosa?» chiedo, un sussurro che viene risucchiato dalla sorpresa quando anche la benda svanisce. La luce all’inizio mi spiazza, troppo forte dopo essere rimasta al buio. Ma poi è la vista che mi lascia senza parole. Siamo in un appartamento, uno nuovo di zecca. La zona giorno si divide tra una cucina a elle alla mia sinistra, con un bancone ribassato da un lato per fare da tavolo, e un vero soggiorno, con il divano sistemato davanti a una porta finestra che dà sul terrazzo vuoto. A destra, porta aperta mi fa scorgere un disimpegno e la parte restante della casa. «Che posto è?» chiedo, i piedi che mi fanno andare avanti quasi senza che me ne renda conto. Un mare di libri e custodie affollano il mobile attorno alla tv, uno schermo piatto a cui sono già state collegate due console di gioco diverse, mentre sulla parete dietro il divano sono stati appesi i due stendardi di casa Stark che ho regalato a Stefano per il compleanno. Mi volto a guardarlo e lo trovo con gli occhi fissi su di me, le mani nelle tasche posteriori dei jeans e la camicia con le maniche arrotolate. La giacca e il maglione che indossava sono finiti su una delle sedie. Veloce a spogliarsi, eh? «Casa mia. E di mio cugino.» «Hai comprato casa?» «Roby, in verità. Io gli pago solo l’affitto della mia stanza» spiega, indicando con un cenno la porta sulla destra. «Vuoi vedere il resto?» Annuisco e lo seguo nel corridoio. C’è una porta sulla sinistra – il suo bagno e per gli ospiti, mi dice – e una di fronte, la sua stanza. «Quella di mio cugino è la matrimoniale là in fondo» aggiunge, accendendo la luce della sua camera. «Si è preso il bagno privato, ma io ho la vista sul terrazzo.» Entro e mi trovo davanti a un angolo con scrivania, con un’altra libreria che resta nascosta dietro la porta. Sulla sinistra, il letto è addossato alle parete dove appoggia anche la scrivania e finisce per metà sotto la finestra, lasciando spazio sufficiente per l’armadio. E per gli scatoloni ammucchiati tra i due. «Essenziale» mi guardo attorno, studiando ogni pezzetto della vita di Stefano. È identica a ciò che ho sempre trovato da lui, nella camera a casa dei suoi. Certo, tranne il letto doppio. «Ma è carino. Ti ci vedo.» «Grazie» è rimasto sulla soglia, le mani ancora nelle tasche. È la prima volta che restiamo da soli, almeno da quando abbiamo litigato, e vederlo fermo sull’unica via di fuga che ho da questa casa mi spinge a tornare indietro, deviando però vero la scrivania. Non ha molte cose in giro e, se le scatole dicono qualcosa, non si è trasferito da molto. Però c’è una cornice accanto al pc, con la nostra foto dopo l’orale di maturità. So che è di quel giorno perché è stata la seconda occasione in cui non ho messo gli occhiali, altrimenti mi verrebbe da chiedergli quando mai io e lui ci siamo trovati abbracciati così. Io soprattutto, che ho le mani attorno al suo collo e gli sorrido a trentadue denti, le labbra appena arricciate come stessi parlando. Stefano, invece, ha la testa chinata verso di me, come per sentire meglio, gli occhi e le labbra ridenti immortalati dall’obiettivo anche se non sembra accorgersene. «L’ha scattata Monti» dice alle mie spalle, il suo dito che mi compare accanto e punta verso noi due. «Ho passato settimane a chiedermi come abbia fatto quella ficcanaso a scattare una foto del genere.» «Giada ci ha sempre beccati in situazioni equivoche. E ha sempre frainteso anche le battute più banali» gli ricordo, ruotando su me stessa per guardarlo e me lo ritrovo a un palmo dal naso. Uh, non immaginavo fosse così vicino. «Come mai ce l’hai tu?» «Me l’ha regalata una settimana dopo, alla cena di classe» si stringe nelle spalle. «Non so perché.» «Sai che le piacevi?» gli domando, spostandomi appena tra lui e la sedia, osservando la libreria piuttosto che soffermarmi su quanto sia assurda questa serata. L’intera conversazione lo è, ma se c’è qualcuno che deve decidersi a parlare, quel qualcuno è Stefano, non io. È lui che mi ha “rubata” dalla festa dei miei per portarmi qui. «Sì, me l’ha detto prima che scartassi la foto. Trovato qualcosa di interessante?» «Dovre…» allungo una mano e afferro l’oggetto appoggiato sul ripiano più basso. «Cosa ci fa qui questo!?» Questo è la mia edizione limitata del cacciavite sonico del Decimo Dottore, che ho cercato come una matta per mesi. «Te l’ho rubato lo scorso Natale» Stefano guarda il cacciavite e poi me, facendo mezzo passo avanti. «Così eravamo pari.» «Pari?» domando in un gemito, preoccupata dall’essere così vicini. Accidenti, ma come siamo finiti dal parlarci a stento al non avere nemmeno un centimetro tra i nostri corpi? E dove diamine è evaporato Benji, lo stesso che non osava guardarmi troppo a lungo per paura che fraintendessi? «Pari, Ginevra. Perché tu mi ha rubato Holls e la nostra amicizia, con i tuoi silenzi, i musi lunghi e il continuo rifiutarti di affrontare un certo argomento.» «Sì, be’, non sono stata io a iniziare. Tu mi hai portato via Benji.» «Ah, sì?» chiede, ironico. «Mi chiedo come, visto che sono sempre stato qui.» «Avresti potuto fare quello stupido tatuaggio con me, tanto per dirne una.» Per tutta risposta, Stefano porta le dita al collo della camicia. Slaccia il primo bottone e il secondo senza che il mio cervello riesca a capacitarsi di quello che sta facendo. È già al quarto quando realizzo che sta spogliando anche la camicia. «Che… che fai?» «Non la tolgo per chissà quale secondo fine, Gwen» gli occhi gli brillano di divertimento, «anche se mi piacerebbe.» «Meglio se te lo scordi, Benji» gracchio quasi, obbligandomi a tenere lo sguardo fisso sul suo viso. «Sono ancora incazzata nera con te.» «Per non aver fatto il tuo stesso tatuaggio?» le dita esitano a metà dell’addome, e se me ne accorgo è perché ho appena fallito nel “Non guardare giù”. «O per la festa di quest’estate?» «Entrambe» ammetto e lui ricomincia a slacciare. «Sei il mio migliore amico. Passi il tatuaggio, se non hai voluto farlo. Ma mi hai dato della balena davanti agli altri.» «Io non ti ho dato della balena» nega arrabbiato. «Hai detto che il costume era troppo piccolo» incrocio le braccia al petto, rifilandogli il mio peggior sguardo truce. «E che avrei dovuto metterne un altro.» «Perché quello faceva vedere praticamente tutto» molla l’ultimo bottone e appoggia le mani sulla scrivania dietro di me, bloccandomi con un’occhiata di fuoco. «Ti copriva a malapena il culo, Gwen.» «Non è vero!» protesto, troppo seccata dalla sua scenata per notare davvero che gli posso vedere sotto la camicia. Oh, ma chi prendo in giro? Certo che me ne accorgo. Solo che adesso mi dà ancor più fastidio. «E da che pulpito, poi. Chi è quello mezzo nudo adesso?» «Io non mi sono spogliato davanti a un branco di ventenni con quattro neuroni in croce, pronti a saltarti addosso. Tu sì.» «Esagerato! Quasi tutti erano già impegnati» minimizzo, seccata perché lui può divertirsi ed essere estroverso mentre io no. Il che mi ricorda della scena in università, la sua parlantina quando l’ho beccato a parlare con la sua amica durante il mio esame. «E poi a te che te ne frega? Hai Sarah con cui fare coppia.» Ok, non volevo suonare gelosa. Però ormai il danno è fatto. Pazienza. «Primo. Alla festa, non tutti gli amici di mio cugino avevano la ragazza e almeno uno di loro mi ha chiesto il tuo numero. Che non gli ho dato, per inciso.» Provo a chiedergli perché no, ma la sua occhiata mi zittisce. «Secondo. Se io e Sarah ci mettessimo in coppia per fare una cosa qualunque, saremmo in competizione. A maggior ragione se si tratta di chi ci piace, visto che abbiamo gli stessi gusti quando si tratta di ragazze.» «Voi…» sto per mettermi a ridere ma lui solleva un sopracciglio. «Sei serio?» «Secondo te perché non te l’ho mai presentata in dieci anni? Già stasera ci ha mezzo provato» vedo le braccia stringersi verso i miei fianchi e resto immobile. «Ti ho rubata anche perché altrimenti mi avrebbe mandato ai matti.» «Esagerato» lo liquido, cercando un modo per allontanarlo che non implichi toccarlo. Non so se sarei abbastanza forte da riuscirci una volta appoggiate le mani su di lui, specie se sotto la camicia. «Per niente, Ginevra. Proprio come quando ti ho vista in costume e ho immaginato di coprirti con un sacco. O un vestito da suora.» «Sei proprio uno stronzo, Benji.» Non ho intenzione di restare ferma a farmi insultare. Però commetto un grande errore: allungo la mano aperta verso la sua spalla e lo spingo, ma è il tessuto a muoversi non il mio amico. La camicia gli scivola giù, scoprendo il fianco sinistro e… il tatuaggio che gli occupa il corpo dalla clavicola alla vita, e che pare continuare anche oltre, con le linee nere che si inabissano sotto la linea dei jeans. È fatto di più sezioni, o così sembra, con una striscia centrale a forma di esse allungata, la banda nera decorata da una serie continua di punte e circondata da quelle che sembrano foglie, o piume, alcune riempite di inchiostro nero, altre di segmenti e linee spezzate. È dalla punta di una di queste che scaturisce l’immagine di un… Inclino la testa per vederlo meglio e mi accorgo che è un delfino. Tutto ha uno stile tribale, le fasce ampie e definite dei disegni che gli si arrampicano sulle costole e salgono ad avvolgersi attorno al pettorale, dove terminano in una stella interrotta da spirali che sembrano disegnare una lettera al suo interno. Sembra quasi una… «L’ho fatto anche io il tatuaggio, Gwen. Ma poi Sarah mi ha parlato della tradizione maori, di come ogni segno dell’inchiostro racconti una storia, e ho pensato di renderlo un po’ più… complesso.» Mi afferra una mano e la trascina nella parte inferiore, le dita che gli sfiorano la pelle calda e il tessuto ruvido dei jeans. «Qui parte la felce, anche se le radici sono appena più in basso.» «Ma davvero? Non ti facevo così pessimo nel provarci con le ragazze» scherzo, ma sono comunque senza fiato. «Giuro» accenna un sorriso, lasciandomi andare per riportare la mano sulla scrivania. «Te le mostrerei, ma poi mi daresti del pervertito. Dicevo… c’è la felce, con i suoi rami e le foglie, che parte dal basso e cresce…» «Sei davvero pessimo, lo sai» mi sforzo di prenderlo in giro, anche se sono incapace di staccare le dita. «Parte dal basso e cresce!?» «Scusa se ho una scelta verbale limitata. Preferivi “Si innalza”? “Si erge”? Perché credo che “cresce” sia quello meno allusivo.» «In effetti. Ma c’è anche “arrampicarsi” e…» «Gwen restiamo qui fino a Capodanno se non mi fai andare avanti. Non che me ne possa lamentare, eh» sospira e sento i suoi muscoli tendersi, «ma avrei anche altro da fare.» «Oh, ok. Quindi, la felce…» «Si arrampica sul costato» sorride appena, una presa in giro per la mia imbarazzante pignoleria. «Rappresenta la crescita, disegna un percorso che nasce dal desiderio e dall’indipendenza e porta a un obiettivo da seguire, attraverso la forza e il coraggio.» «Le punte delle frecce?» Fa cenno di sì con la testa. «Accanto allo stelo ci sono le foglie, i risultati di questa crescita e le linee che le riempiono raccontano ciò che hanno significato per me. Ma nel suo percorso incontra anche qualcosa di prezioso, un legame indissolubile che porta agli amici più cari. Vedi le iniziali?» Seguo il disegno con i polpastrelli, tracciando la sagoma del delfino sul suo fianco e trovando dei piccoli segni appena sotto il suo muso: H&B. «Lo hai fatto davvero» la copia sul mio polso pizzica mentre sfioro la prova della nostra amicizia. «Potevi mostrarmelo.» «No, perché non sono Holls e Benji quelli che contano. Guarda bene.» E lo faccio, seguendo le linee marcate del tatuaggio fin sotto la clavicola. Fino alla stella disegnata all’altezza del cuore. Ne passo i contorni, non riuscendo a impedire che un sorriso soddisfatto mi affiori sulle labbra quando lo sento trattenere il fiato, brusco, come se il mio tocco l’avesse scottato. È lo stesso per me, nel percepire le sue braccia attorno al mio corpo. «G» mormoro, disegnando la lettera tracciata al centro della stella. «Tu non sai quanto ti ho detestato pensando che non avessi fatto il tatuaggio uguale al mio. Sembra che mi sia sbagliata.» «Direi di sì, Gwen» lo sento tamburellare sulla scrivania, impaziente, mentre i suoi occhi passano in rassegna ogni angolo del mio viso. «Mi sono illuso, sai.» «Che intendi?» «Credevo che a mostrarti il mio tatuaggio, Ginevra la ladra si sarebbe decisa a sparire dalla circolazione. Mi sono illuso che ti avrei riavuta indietro.» «Io…» stacco le dita dal suo petto e raddrizzo la schiena, le nostre teste che adesso sono allo stesso livello. Gli osservo le labbra dritte, appena schiuse a lasciar vedere la linea dei denti. Come siamo arrivati a tutto questo? «Io non ti ho rubato niente.» Stefano si lascia andare a una risata secca, fin troppo breve. «Tu, Ginevra Jasmine Estri, mi hai rubato il cuore un pezzo alla volta, anno dopo anno. Ed è dallo scorso Natale che ho una voglia matta di baciarti, anche se tu mi sei sempre scappata.» «Guarda che anche tu lo sei. Mi hai portata via da casa dei miei e…» la voce mi trema per la felicità, il cuore che scalpita e le dita che fremono per toccarlo di nuovo. «E?» mi incita, sollevando un sopracciglio mentre i nostri respiri si mescolano, l’angolo delle sue labbra che si curva all’insù in un piccolo ghigno. «E anche tu mi hai rubato il cuore. Quindi al massimo siamo pari!» «Pari, eh? Aspetta, quindi il cretino di cui parlava tua sorella ero io?!» «Tu che dici?» La risposta sono le nostre bocche che si incontrano a metà strada, cancellando la distanza insignificante tra noi. Cancellando l’universo in cui entrambi abbiamo vissuto fino a questo momento. Un frammento alla volta, un bacio dopo l’altro, Stefano e io rubiamo a entrambi il senno, i dubbi e ogni paura avessimo mai potuto provare nel guardare al di là della nostra amicizia. Per quest’anno, il Natale appartiene ai ladri innamorati. E non potrei esserne più contenta.
Spero siate sopravvissuti fino alla fine!
Se siete curiosi, questi sono i tatuaggi maori a cui mi sono ispirata per quelli di Stefano:
E se vi va, mi farebbe super piacere leggere le vostre impressioni su questo racconto!
Ah! Da oggi il blog e io ci prendiamo una settimanina di pausa per ricaricare le pile e ripartire con il nuovo anno in piena forza. Vi auguro di trascorrere un sereno Natale e un buon inizio 2021, nella speranza di poter tornare tutti a uscire e vivere come prima di questa terribile esperienza!
Grazie di essere parte della mia famiglia virtuale!
Ci rivediamo il 4 gennaio!
Federica 💋
P.s. O su Instagram, in questi giorni di vacanza 😉
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