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Immagine del redattorefedecaglioni

Lost somewhere – Capitolo 5

Una vita passata nell’ombra, senza mai eccedere in ciò che faceva per timore delle conseguenze o di dover cambiare città per essere finita sulla lista nera di qualcuno, e dedita all’inganno perché era quello che le era stato insegnato; non si era mai posta il problema di cosa potesse fare per cambiare le carte che le venivano servite lungo la strada per il semplice motivo che ci aveva provato una volta e ciò che era accaduto dopo l’aveva messa in guai ben peggiori. Si era sempre mantenuta ai margini perché era più comodo e le permetteva di vivere senza avere troppi problemi, ma mentre si sedeva nell’auto della donna e quella partiva, si rese conto che si stava esponendo di nuovo e lo faceva per colpa della stessa persona. Di certo lui le avrebbe detto che solo un’incapace e una stupida poteva comportarsi in quel modo, anzi le sembrava di sentire il timbro scuro della sua voce mentre lo diceva, però aveva smesso di tenere in considerazione le sue parole molto tempo prima. Era per quello che riusciva a restare in macchina senza preoccuparsi troppo, perché anche se sapeva che stava contravvenendo a ogni regola del buonsenso, le restava la certezza che avrebbe finalmente messo la parola fine a una fuga che durava da anni.

Tutto ciò che la donna le disse mentre l’auto correva veloce da un capo all’altro della città fu di chiamarsi Claire; non aggiunse niente né su dove la stesse portando né tanto meno le disse perché la foto di quell’uomo era la causa che l’aveva spinta a cercarla. Però le suggerì di dormire un po’, aggiungendo che l’avrebbe svegliata lei non appena fossero arrivate a destinazione.

Per quanto sentisse il bisogno di chiudere gli occhi e abbandonarsi alla tranquillità del riposo, non si fidò di abbassare ulteriormente la guardia ma rimase sveglia e vigile per tutto il tragitto. Memorizzò buona parte del percorso e fissò nella sua mente dei punti di ferimento, così da non perdere l’orientamento nel caso fosse scappata e avesse dovuto percorrere la strada a piedi. Passarono quattro semafori, tre volte andarono dritte e alla quarta svoltarono a sinistra, poi una serie di deviazioni e si ritrovarono su una strada deserta, invasa da sterpaglie e dalle fronde degli alberi; piccoli scossoni accompagnavano l’avanzare della macchina, dove le radici si erano infiltrate sotto l’asfalto, deformandolo e rendendo impervio il passaggio.

Proseguirono in quella direzione per molto tempo, tanto che presto la notte e le stelle si diradarono e il giorno si fece un po’ più vicino. La ragazza cominciava a sentirsi stretta in quell’auto, troppo vicina a una donna che non conosceva e ben lontana da una strada battuta. Le mani le prudevano dalla voglia di aprire la portiera e saltare in mezzo agli alberi, ma la frenava la consapevolezza che tutto ciò che possedeva si trovava nel baule e non avrebbe potuto recuperarlo. E poi c’era la foto, quell’immagine sfuocata di un uomo che poteva anche non essere lo stesso, ma che era abbastanza simile da indurla ad agire contro ogni logica. Tenne a freno le mani e guardò fuori dal suo finestrino.

La strada asfaltata era terminata da un pezzo e al di là delle piante, che comunque continuavano a costeggiare il passaggio, si intravedevano sprazzi di paesaggio. Un campo arato, seguito da un piccolo bosco composto da alberelli dal fusto esile e infine un altro pezzo di terra coltivato, questa volta però separato dalla strada da un fiume placido di acqua cristallina. La campagna distava quattro ore dalla periferia da dove erano partite, ma loro erano in viaggio da molto più tempo. La ragazza dedusse che, dovunque la stesse portando, chi aveva mandato Claire non voleva farsi trovare facilmente.

«Tenete molto alla sicurezza»

La donna bionda al volante la guardò distrattamente. «Non in modo eccessivo»

Furono le uniche parole che si scambiarono in tutto il tragitto. La ragazza, stanca di guardare fuori, ricominciò a sentire quel pizzicorino alle mani e la forte sensazione che la parte anteriore dell’abitacolo fosse troppo piccola per entrambe, ma non disse nulla né si mosse. Dove sarebbe potuta scappare? Era a ore di cammino da qualsiasi cosa o da qualunque strada battuta.

Senza preavviso l’auto deviò su una stradina sterrata grande abbastanza per lasciarla passare e dopo circa mezzo chilometro superò un cancello in ferro battuto mezzo divelto, fermandosi davanti a un’alta villetta a due piani. Dietro si intravedeva il tetto color tortora di una rimessa, mentre sullo sfondo un piccolo laghetto luccicava sotto la luce del sole appena sorto.

«Prendi le tue borse e seguimi» le ordinò Claire scendendo dall’auto e precedendola verso la porta d’ingresso tutta rovinata.

Non avendo alternative, fece come le era stato detto ma approfittò della libertà per dare un’occhiata in giro mentre passava la tracolla del borsone sulla testa e la metteva sulla spalla. La villetta era fatiscente, con la vernice che si staccava dalle assi di legno imbarcate di quello che avrebbe dovuto essere un portico, ma di cui restavano solo tre colonne e un’esigua porzione di tetto; le imposte di entrambi i piani non erano più nei cardini e giacevano abbandonate in un angolo del cortile, in mezzo alle erbacce e all’erba incolta; poche finestre erano ancora integre, anzi, guardando meglio si rese conto che nessuna era sopravvissuta all’incuria o allo sfacelo del tempo. Tutto si poteva dire, tranne che ci fosse vita all’interno di quei muri.

L’interno non si trovava in condizioni migliori, con le pareti attraversate da spifferi e quel poco di mobilio presente ridotto in condizioni disastrose, ma riuscì a sentire chiaramente che, nonostante l’apparenza disabitata, quel posto conservava traccia di chi vi aveva vissuto e di chi in quel momento ci viveva.

«Da questa parte» Claire la guidò attraverso un corridoio lungo e stretto, passando davanti a più porte di quante ne avrebbe immaginate guardando la casa da fuori. Era più grande del previsto. «Anche se tutto l’edificio è agibile, abbiamo preferito installarci nel padiglione ovest. È quello messo meglio» spalancò una porta scorrevole a doppio battente che dava su un ampio salotto. O una stanza che un tempo serviva da salotto, perché quella che la ragazza si trovò di fronte fu una tecnologica sala computer, con uno schermo gigante sull’unica parete non occupata da finestre. I cavi, di tutte le dimensioni possibili e immaginabili, correvano in ogni angolo della stanza, collegati a un’unica postazione centrale, un tavolo ovale che occupava buona parte dell’ambiente e sul quale erano sistemati tutti i dispositivi elettronici. Gli unici oggetti cui non erano attaccati dei cavi erano un divanetto, posizionato nell’angolo accanto alla porta, e una sedia da ufficio, una di quelle con rotelle, che un ragazzetto anemico faceva scivolare da un lato all’altro del tavolo.

Una figura atletica si alzò dal divano. Era un uomo, i tratti del volto decisi, la mascella squadrata e leggermente prominente, gli occhi piccoli ma duri e penetranti.

«Lui è Zomor» Claire indicò l’uomo con un cenno, poi puntò il dito verso il ragazzino iperattivo. «Mentre lui è Tez» mentre parlava, una delle finestre si rivelò essere una portafinestra perché fu aperta dall’esterno da un tizio di mezza età, la pelle olivastra e i vestiti ricoperti di una sostanza nera e vischiosa. «Yassin, invece, già lo conosci»

Quello che credeva essere un rifugiato politico turco si fece avanti in mezzo al salotto, scompigliando i capelli del ragazzo seduto davanti a uno dei computer quando gli passò accanto, e si fermò davanti alla ragazza. Se lui era lì, doveva esserci anche il tizio incappucciato.

«La mia ambasciatrice preferita» le diede una pacca sulla spalla come se fossero vecchi amici. «Hai dato del filo da torcere a Claire vedo?»

La donna bionda si sfiorò il labbro gonfio. Gli occhi le saettavano. «È fortunata ad essere arrivata qui senza troppi lividi»

Era sorpresa più che sconvolta dall’apparizione di Yassin, ma non lo diede a vedere. Non capiva più perché si trovasse lì. Era evidente che il suo capo si era fatto fregare, lo stesso valeva per i clienti che lo avevano contattato, però lei non aveva la benché minima idea di cosa volessero quei quattro e cosa li legasse all’uomo della foto.

«Che ci faccio qui?»

«Non lo sappiamo» Claire si sedette accanto all’uomo sul divano. «Mi è stato detto di venirti a prendere e di mostrarti quella foto per convincerti a seguirmi»

«Dobbiamo aspettare» Yassin si accomodò su uno dei braccioli. «Quando Wolf sarà qui ne sapremo tutti di più»

«Wolf?» la ragazza, che fino a quel momento era rimasta ferma davanti alla porta scorrevole, abbandonò le borse sul pavimento e fece qualche passo nella stanza. Se doveva aspettare, tanto valeva mettersi comoda e saperne di più.

«Il nostro capo. È lui che mi ha mandata a cercarti»

«Siete i suoi burattini?»

Yassin bloccò Claire con un gesto. Dopo Wolf, doveva esserci lui al comando. «No, semplicemente siamo al suo servizio»

Per lei era inconcepibile un tale comportamento. Assecondare ciecamente le indicazioni di qualcun altro era un modo di fare che a lei non sarebbe mai andato a genio. «Perciò fate tutto ciò che lui vi ordina?!»

«Diciamo che gli dobbiamo molto» Yassin prese la parola per tutti. «Siamo qui perché siamo tutti in debito con lui»

«Dev’essere un tipo speciale per meritare tale cieca fiducia» si avvicinò al tavolo e vi si sedette. Qualcosa le diceva che avrebbe dovuto aspettare un bel po’.

«Cerchi di provocarci?» Claire si alzò di scatto dal divano e le scoccò un’occhiata truce. Non doveva aver preso bene quella storia del labbro rotto. «Perché con me ci stai riuscendo benissimo»

«Claire»

«Non ho intenzione di sopportare questo suo tono, Yassin» si voltò per guardarlo. «Può aiutarci anche con un occhio pesto e due costole rotte»

«Wolf ha detto…»

«Non m’importa un cazzo di cosa ha detto di fare dopo averla portata qui. Se resta, deve imparare quando tacere»

La ragazza si astenne dal ridere. Più osservava Claire, meno la intimoriva la possibilità che potesse picchiarla. Quei tre – perché il ragazzo al computer era come se non ci fosse – non avevano davvero idea di cosa ci facesse lì, perché se avessero saputo chi era l’uomo della foto e il suo legame con lei, non avrebbero di certo pensato che un occhio nero e delle costole rotte sarebbero riuscite a spaventarla. Aveva vissuto di peggio.

«Credo di avere diritto di sapere chi siete. Per quanto ne so, questo Wolf potrebbe anche non esistere»

«Io sono il meccanico, Claire è l’interprete, Tez l’esperto di informatica e Zomor l’addetto alla sicurezza» l’espressione beffarda di Yassin le fece capire che il loro lavoro non era così trasparente come aveva voluto farle credere. Erano criminali peggiori di lei. Incredibile ma vero, quell’idea la rassicurò. Più era sporco, più si sentiva nel suo ambiente.

«Spero che tu sappia riparare macchine meglio di come menti»

Yassin rise debolmente, mentre Claire e il tizio sul divano si voltarono per guardarlo. Il ragazzo al computer non sembrò nemmeno accorgersi di ciò che accadeva.

«Wolf aveva ragione su di te. Non si è sbagliato quando ha detto che avremmo dovuto dirti la verità per convincerti»

«Che cosa fate qui?» sorvolò sulla frase. Chiunque fosse Wolf, non doveva essere sottovalutato e iniziava a sospettare che fosse lo stesso uomo visto con Yassin quella sera.

Il turco, sempre che lo fosse davvero, si passò una mano sulla guancia, insistendo sulla cicatrice. «Beh, per quanto mi riguarda, io mi occupo di macchine, qualunque tipo di lavoro esse richiedano»

«Io tengo i contatti» Claire si fece avanti per seconda, anche se non sembrava molto felice di farlo. «E sbrigo le faccende delicate»

«Tez invece è il nostro hacker» Yassin lo chiamò ma lui non disse nulla.

«Un po’ apatico» commentò la ragazza, ben sapendo che non avrebbe comunque ottenuto una reazione. «E lui?» indicò l’uomo sul divano.

«Esperto di armi» il diretto interessato non aspettò che Yassin rispondesse per lui. Aveva uno spiccato accento russo.

Dunque. Un meccanico, una spia, un hacker e un potenziale assassino, sempre che non lo fossero anche gli altri. Era finita in una situazione più complicata del previsto, e ancora non sapeva cosa volessero da lei. Decise che avrebbe creduto alla storia del “Solo il nostro capo conosce il piano” e che avrebbe aspettato l’arrivo di Wolf prima di decidere il dà farsi. Nessun le aveva detto che poi era obbligata a restare.

«Comunque non avete risposto. Cosa fate qui?»

«Risolviamo i problemi che nessuno vuole vedere» Yassin rispose per tutti.

«Continuo a non capire»

«Sarà tutto più chiaro all’arrivo di Wolf»

Chi diavolo erano quei quattro? Le sembravo un branco di sprovveduti in attesa del salvatore, solo che nessuno li avrebbe potuti salvare se l’uomo della foto aveva qualcosa a che fare con loro. Lei lo sapeva bene.

Infilò le mani nelle tasche della giacca e qualcosa di ruvido le solleticò i polpastrelli. Era nuovamente quel biglietto da visita dimenticato sul bancone del bar da quel logorroico. Trentasei ore non le erano mai parse così lunghe, eppure la conversazione di quasi due giorni prima sembrava essere un ricordo vecchio di secoli e per quanto fosse insignificante, aveva scavato un solco profondo nella sua mente. Era convinta che ogni ricordo a lei caro fosse come un’incisione sul cuore cicatrizzata male, insostenibilmente dolorosa se solo ci ripensava, e dopo quella sera ne era apparsa una nuova legata a quel bar e a quell’uomo; circondata da quegli sconosciuti, si sorprese a pensare cosa sarebbe accaduto se lo avesse ritrovato dopo averlo inseguito per rendergli i suoi soldi. Tutto o forse niente, ma era questo a lasciarla insoddisfatta: il non sapere cosa sarebbe potuto accadere. Era in quella casa in mezzo al nulla, con quattro persone di cui non sapeva assolutamente niente e che l’avrebbero riavvicinata all’uomo che era stato come un padre per lei e tutto ciò che le interessava era immaginare una conversazione mai avvenuta con un tizio che non avrebbe mai più rivisto. Preferiva pensare a quel tipo in giacca e cravatta piuttosto che affrontare la realtà dei fatti; pensare a lui non era doloroso quanto ripercorrere i momenti della sua vita che riguardavano l’uomo della fotografia.

«Che razza di nome è Zomor?» domandò di punto in bianco, staccandosi dal tavolo quando l’apatico hacker la guardò in malo modo perché era in mezzo ai piedi.

«No è nome. Sopranome» la corresse il russo. «Io chiamo Dimitri»

«E Zomor da dove arriva?»

«È serbo. Significa “all’alba”» fu Yassin a risponderle, dopo aver afferrato Claire per le spalle e averla fatta nuovamente sedere. «Perché non glielo racconti Dimitri? Così inizia a fidarsi di noi»

Il russo accennò un ghigno soddisfatto, incrociò le braccia al petto e si lasciò andare contro lo schienale. «Mia moglie aveva amante serbo. Suo nome legato a qualcosa come “alba”, quindi io ucciso lui allo spuntare di sole e poi seppellito sotto ghiaccio di Siberia. Sua vedova dato me sopranome»

«E tua moglie?»

Zomor rinnovò il sorriso, mentre i suoi occhi piccoli guardavano divertiti la ragazza. «Fa lui compagnia»

«Perciò sei un criminale» era quasi divertita dal tono di Dimitri, non spaventata. In un certo qual modo si sentiva a proprio agio.

«Tu invece chi sei?» Claire la apostrofò infastidita. «Hai voluto sapere di noi, ma tu non ci hai detto nemmeno il tuo nome. Non sappiamo nemmeno perché tu sia così utile»

La ragazza ci pensò per un attimo. Se nessuno di loro sapeva niente su di lei, sulla sua vera identità, allora poteva fingersi chi voleva. Poteva ancora una volta tenere lontana la vecchia sé dal mondo esterno e usare uno dei tanti personaggi che aveva creato e perfezionato negli anni. Jessica, scappata di casa da bambina perché i genitori la picchiavano; Katja, immigrata senza documenti; Paula, figlia di ricconi desiderosa di un po’ di attenzione da parte della famiglia. Avrebbe scelto una delle tante, qualunque di loro andava bene, poteva essere chiunque ma non se stessa.

«Io…»

«Lei è Emilia» tutti si voltarono verso la porta e guardarono l’uomo che aveva appena parlato. «Ed è qui perché credeva di aver ucciso un uomo»

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