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Lost somewhere – Capitolo 2

Il lavoro era sempre stato stancante, ma lo era in maniera quasi insopportabile il sabato mattina, quando si trovava faccia a faccia per due ore consecutive con una crocerossina che la credeva un’orfana bisognosa di aiuto. Ormai erano due mesi che portava avanti quella recita e stava quasi iniziando a stancarsi di fingersi così disperata da aver bisogno che una donna di mezz’età con la sindrome da Madre Teresa le portasse da mangiare e si prendesse cura di lei. Ma se serviva per appagare i suoi desideri, allora sarebbe stata al gioco ancora per un po’, quanto meno fino a quando la donna avesse continuato a pagare la società per la quale lavorava.

Ciò che rendeva quelle due ore difficili da sopportare era la poca inventiva che la crocerossina le lasciava. Non aveva problemi quando i clienti le permettevano di dare libero sfogo alla fantasia e assecondavano gli slanci e gli imprevisti che le sue bugie creavano, anche perché in quel modo riusciva a tenere la situazione sotto controllo, ma il sabato era lei a dover seguire un copione senza avere la possibilità di improvvisare e questo la metteva in agitazione. Non le piacevano le sorprese e la crocerossina cercava sempre di stupirla, inventando situazioni sempre diverse ma che sfociavano sempre nello stesso cliché. Si trattava di una storia banale, dove lei finiva per recitare la parte della cenerentola assoggettata a una rigida ma benevola matrigna.

A parte le due ore della mattina, però, quello che rendeva il sabato il giorno lavorativo peggiore dell’intera settimana era la riunione con i colleghi, che si prolungava dall’ora di pranzo fino a sera inoltrata senza darle la possibilità di andarsene prima. In un lavoro come il suo era di vitale importanza conoscere i clienti con cui si aveva a che fare, i loro gusti, quello che desideravano e il carattere che si aspettavano avesse il personaggio per il quale stavano pagando fior di soldi, perciò di sabato tutti i dipendenti ricevevano l’elenco dei lavori da svolgere la settimana successiva e dovevano immedesimarsi in tutti i ruoli che erano stati richiesti. Lei lo trovava una perdita di tempo, soprattutto perché riusciva a capire come comportarsi solo guardando chi le stava di fronte e non certo leggendo una stupidissima e impersonale scheda precompilata e su cui i clienti segnavano delle crocette per dire “Questo mi piace” o “Questo non mi piace”. Per lei era inutile perciò, se le riusciva, il sabato pomeriggio, quando la crocerossina se ne andava felice e in pace con se stessa per aver aiutato una povera orfanella, lo passava in uno degli studi deserti della sede a impersonare quei due o tre personaggi che i suoi clienti fissi tanto adoravano. Da sola non era divertente ma le serviva per avere una paga e tanti extra alla fine del mese.

Quel sabato era iniziato nello stesso modo e persino Madre Teresa non si era allontanata troppo dalla versione della storia che aveva proposto nell’ultimo incontro, quindi era riuscita a sopportare un po’ di più la mania di controllo della cliente e poteva ritenersi abbastanza soddisfatta per averle dato quello che desiderava ed essersi assicurata anche per quella volta una cospicua mancia. Le ore erano scivolate le une dietro le altre senza intoppi fino a sera, quando si era di nuovo diretta verso casa, e nulla sembrava ricordarle l’incontro della notte prima né il fatto che non fosse più stata in grado di ritrovare il bar in cui si era rintanata tutte le sere per una settimana. Non ci aveva pensato nemmeno così spesso come si era immaginata; ne era rimasta sorpresa ma non andava oltre e lei non era certo il tipo da perdere il sonno rimuginando su qualcosa fuori dall’ordinario. Aveva già avuto una cospicua dose di incontri strani in vita sua e non era disposta a prendere sul serio anche un chiacchierone conosciuto per caso e che non avrebbe di certo rivisto.

Casa sua, il buco che avrebbe offeso la parola “appartamento” se così fosse stato definito, si trovava fuori città, a circa un’ora di metrò dalla periferia, in un complesso nascosto tra delle fabbriche tessili che non funzionavano più da anni. Gliel’aveva trovato il suo capo, dicendole che quel posto era il più adatto per una come lei che era abituata a sparire quando le acque si agitavano (in realtà al suo capo faceva comodo che lei non si facesse vedere più di tanto nei quartieri vicini al centro, almeno era certo che l’Agenzia del Lavoro non sarebbe mai andata a chiederle i documenti necessari per essere in regola), e nonostante avesse una buona paga, non si era mai posta il problema di cercarsi una casa più grande o in un posto migliore. Stava bene anche lì e dopo che si era abituata alla presenza invisibile dell’inquilino del piano terra, non le sembrava più il caso di chiedere al suo capo di trovarle una casa che facesse meno schifo o che avesse almeno l’acqua calda per più di quattro ore al giorno. Non ci restava mai così a lungo.

Mise piede nel palazzo e come tutte le volte in cui entrava o usciva, avvertì immediatamente lo sguardo viscido del suo unico vicino squadrarla attraverso lo spioncino. Per i primi tempi si era sentita a disagio, come se qualcuno l’avesse messa in un vetrino e osservata a un microscopio, ma poi aveva smesso di pensarci. Se ne accorgeva, la pelle delle braccia e del collo le diventava elettrica e doveva combattere con tutta se stessa contro l’impulso di guardarsi attorno, ma aveva deciso di smettere di preoccuparsene almeno nel tratto di strada tra il pianerottolo al piano terra e la fine della rampa di scale al terzo piano.

Mantenendo sotto controllo l’impulso di voltarsi verso la porta annerita dietro la quale sapeva esserci il vicino, salì con calma i gradini cigolanti e solo dopo che fu entrata in casa ed ebbe chiuso la porta a doppia mandata, si concesse un veloce sospiro colmo di sollievo.

Era sollevata che fosse sabato sera, che l’inquilino si fosse limitato a osservarla dallo spioncino e non l’avesse seguita su per le scale e che fosse finalmente libera di essere se stessa. Era stancante fingersi qualcun altro per tutte quelle ore e nell’ultimo mese faceva sempre più fatica a inventare delle menzogne che suonassero convincenti. Non aveva certo paura che il suo talento stesse sparendo, quello era impossibile, ma cominciava a dubitare che fosse poi così infallibile come aveva sempre creduto o che avesse bisogno di un periodo di riposo per ricaricare le batterie.

Fece partire la segreteria telefonica. I primi messaggi erano offerte di lavoro da parte di alcuni clienti che aveva conosciuto tramite l’agenzia e che puntavano solo a una cosa. Lei era una bugiarda e l’avrebbero pagata per quello, non certo perché era stata a letto con loro. Mentre le voci di diversi uomini ripetevano la stessa richiesta in modi diversi, prese un bicchiere e la bottiglia di vino ancora chiusa che le aveva regalato il suo capo e si trascinò in bagno, iniziando a far scorrere l’acqua nella vasca. Le venne quasi da ridere quando una di quelle voci si mise a supplicarla di accettare l’incarico e accompagnarla a una festa tra vecchi compagni di scuola. Avrebbe dovuto fingersi la moglie di un piccolo impiegato che aveva mentito pur di conservare la faccia con persone che non incontrava da anni. Non era nel suo stile e se lavorava in proprio voleva un ruolo degno delle sue capacità, non quello di una docile mogliettina tutta casa e volontariato.

Si versò da bere. Il vino color rubino riempì in un attimo il bicchiere ma lei lo svuotò altrettanto in fretta, lasciando che il suo sapore fruttato le avvolgesse la bocca e le scaldasse un po’ il corpo. Non aveva niente a che vedere con la birra servita in quel bar dimenticato da dio, oltre che da eventuali clienti. Si chiese se quell’uomo l’avesse cercata o se si fosse seduto di nuovo a quel bancone nella speranza di vederla entrare; non che le importasse o che sperasse in chissà quale rivelazione, ma certi pensieri a volte le facevano sentire meno la solitudine.

Continuò a bere anche mentre ne se stava distesa nella vasca da bagno, immersa in una nuvola di schiuma e con un orecchio attento alla segreteria telefonica. Non aveva chiamato nessuno di interessante, nessuno per cui valesse la pena uscire di sabato sera e solo l’ultimo messaggio vocale si rivelò di una qualche utilità. La stupì veramente poco scoprire che il suo capo aveva bisogno di lei per un cliente che aveva chiamato all’ultimo minuto e che lei era la sola che potesse svolgere un incarico simile. Fu tentata di non dargli ascolto, di fingere di avere altro da fare dicendosi che avrebbe rabbonito il suo capo inventandosi una banale scusa come quella di non aver ricevuto il messaggio, ma le parole “Settimana libera” e “Paga triplicata” la convinsero che valesse la pena richiamarlo e sentire cosa le sarebbe toccato fare quella volta.

 

Nel progetto originario Lost somewhere era un titolo provvisorio solo per la prima parte della storia (Lost somewhere) e non dell’intero racconto e doveva essere un capitolo auto-conclusivo… Però c’è ancora molto da dire e da scoprire sulla ragazza, quindi cercherò di continuarlo e di arrivare alla fine insieme a voi (!), lasciando come titolo quello del primo racconto.

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