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Immagine del redattorefedecaglioni

Estratti

Nell’attesa che Time Murder continui, vi lascio da leggere un estratto del mio libro, Alethè 😊 Qui trovate un pezzo del primo capitolo!

Buon sabato e buon weekend 💋

Il paesaggio scorre veloce attorno a me. Le cime delle montagne, in parte coperte dai ghiacciai, si innalzano verso il cielo terso e come tanti giganti posti a difesa di quella terra, impediscono allo sguardo di oltrepassarle per scoprire cosa si nasconde oltre quegli alti pendii; ripide pareti di roccia bruna mi si parano davanti non appena sono abbastanza vicina da scorgere cosa ci sia realmente sotto lo spesso strato di neve congelata. Zigzagando tra i versanti sfioro molte volte gli spuntoni che rendono il passaggio impervio. Sospinta da una brezza che proviene dalle mie spalle e che porta con sé l’odore di salsedine, mi lancio attraverso gli stretti passaggi e lentamente le montagne lasciano il posto a una larga pianura, che corre a perdita d’occhio fino al punto in cui il cielo diventa un tutt’uno indistinguibile con la terra e che è interamente ricoperta di campi coltivati e boschi verdeggianti. Solamente ora mi accorgo che li sto sorvolando sorretta da due ali possenti e semplicemente perfette, e scrutando l’orizzonte, inondato dalla luce rossastra del tramonto, mi sento completamente pervasa da una sensazione di benessere. Mi libro nell’aria, assaporando tutti gli odori e i suoni che il vento porta con sé; è una sensazione nuova, strana ma allo stesso tempo eccitante perché, da quella posizione, riesco a percepire tutto ciò che mi circonda: l’odore del grano maturo coltivato nei campi sotto di me, il frusciare leggero del vento tra gli alberi poco distanti, l’odore di muschio smosso da delle piccole zampe, il battito accelerato e spaventato di un coniglio in fuga, lo scorrere veloce del sangue all’interno del suo corpo caldo e poi la presenza inconfondibile di un essere umano. È quest’ultimo elemento a monopolizzare la mia attenzione. Piroetto un paio di volte sopra il fitto bosco che ho visto e poi, sicura che il posto sia questo, plano verso la boscaglia, entrando in una fitta radura. Qui il sole è già scomparso e l’oscurità mi impedisce di vedere dove metto i piedi. Quanto vorrei che tutto si rischiarasse in questo istante. Non appena finisco di formulare il pensiero, avverto qualcosa sulla superficie degli occhi e subito riesco distinguere nettamente ciò che mi circonda. Dall’oscurità emerge l’esile figura di una donna, scossa da violenti singhiozzi. Tra le braccia stringe un fagotto di coperte. Atterro sul tappeto erboso ma subito lo sento cedere sotto il mio peso. Non so come, ma quell’impercettibile scossa risveglia l’attenzione della donna che, alzando il volto di scatto, stringe al petto il bambino racchiuso in quei lunghi pezzi di stoffa che da lontano ho scambiato per coperte. Il viso austero e spigoloso di lei è paonazzo e rigato di lacrime. Si guarda intorno ma poi torna a fissare il bambino. Non può vedermi. Mi avvicino a lei ma dopo un solo passo, il terreno cede ancora di più e questa volta il rumore è così forte da rivelarle definitivamente la mia presenza. Alza di nuovo la testa e finalmente incrocia il mio sguardo; per una frazione di secondo leggo un terrore profondo nelle iridi color smeraldo. Faccio qualche passo in avanti – sostenendo parte del mio peso con le robuste ali – ma ciò la spinge a indietreggiare, e finisce col rintanarsi ancora di più nella foresta. «Non ti avvicinare» intima, la voce le trema. «Non ti avvicinare» Avvicina il bambino contro il suo seno e cerca di alzarsi, ma la voragine che ho creato quando sono atterrata le fa perdere l’equilibrio. Cade ai miei piedi ed io sento affiorare sulle labbra, indipendente dalla mia volontà, un sorriso di scherno. Per quanto mi sembri innaturale, non lo trattengo. «Dammi il bambino» dico e a stento riconosco la mia voce. È atona, quasi inumana, e sembra provenire dalle profondità della terra. La donna si rialza e mi guarda. I suoi occhi sono una maschera d’odio puro. «Mai!» geme. «Non lo avrai mai!» Rido, forte e di gusto, e mi avvicino sempre di più a lei. Mi basta allungare una mano e semplicemente pensare di vederci finire il bambino che subito è tra le mie braccia. È piccolo, molto fragile e non appena lo stringo, inizia a urlare e strepitare. Il viso paffuto e le guance si colorano dello stesso rossore della donna che, dopo essersi lanciata verso il nulla per raggiungermi, si aggrappa alle mie braccia per cercare di riprendere il neonato. La scaccio immediatamente, quasi fosse un insetto fastidioso. Mi volto e dispiegando le ali, spicco un salto verso le punte degli alberi per poi librarmi nel cielo stellato, mentre la donna – riesco ancora a sentirla nonostante mi trovi già a più di dieci metri di altezza e lontana parecchie miglia – si dispera e m’implora di restituirle il figlio. Rido di nuovo e il cielo nero della notte appena nata si riempie di un suono lugubre e profondo. Sembra strano pensarlo, ma credo di non trovarmi nel mio corpo. È come rivivere un ricordo. Dopo alcuni minuti di volo, sento il respiro del bambino farsi calmo e regolare. Provo una strana sensazione di tenerezza guardandone il visino corrugato ed estremamente serio, come se questo piccolo esserino fosse parte della mia vita. Il viaggio – sebbene non sappia dove sto andando – è tranquillo senza il piagnucolio a tenermi occupata e cullandomi sulla brezza che pian piano si è fatta più insistente, vengo rapita dal movimento regolare e uniforme delle ali. È piacevole essere finalmente serena dopo tutto questo tempo. Continuando a sorvolare le pianure oltrepasso alcuni villaggi silenziosi e quando mi lascio alle spalle le ultime costruzioni, da dietro le nuvole sbuca il volto pallido della luna. Intravedo anche un lago a qualche metro di distanza. Plano dolcemente in quella direzione, seguendo la corrente, finché non arrivo a pochi metri da terra, dove mi lascio cadere richiudendo le ali, piegando le ginocchia per attenuare il contraccolpo ricevuto dal terreno. È il posto ideale. Controllo più e più volte di essere sola e dopo essermi accertata che nessuno ostacoli i miei piani – rido; chi oserebbe mai solo avvicinarsi a una creatura come me? –, svesto il bambino degli stracci che lo avvolgevano. Me lo rigiro tra le mani finché non trovo ciò che sto cercando: a malapena visibile, sopra la scapola sinistra c’è una piccola piuma, candida come la neve. Appoggio una mano sul petto del bambino, imponendogli un sonno profondo, prendo con l’altra la piccola piuma canuta e gliela strappo con un gesto rapido e deciso; l’esile schiena si muove appena mentre estraggo dalla spalla del bambino la punta acuminata alla fine di quest’odioso arto e fuoriesce un esile rivolo di sangue, delineando tutt’attorno al buco una macchia più scura della pelle. Non ho nulla di cui preoccuparmi. Presto sparirà. Ripulisco la schiena e rivesto il bambino. Il mio compito è quasi finito. Lo guardo scomparire dalle mie braccia, diretto a quelle più amorevoli della madre, dopodiché raccolgo la piuma da terra, che è già diventata secca e scura come una foglia autunnale, e la getto nel lago ai miei piedi. Il contatto con l’acqua la sgretola immediatamente, lasciando intatta solo la parte di osso che la teneva attaccata alla scapola. Non devono restare prove di quello che è successo stanotte, perciò afferro l’osso e lo stringo nel palmo della mano finché non si sbriciola. Adesso ho davvero terminato la mia missione e posso affrontare il mio triste nulla eterno senza rimpianti.

© Federica Caglioni

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