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Bad Wolf [Capitolo 2]

Ciao 😊 Chiudo la settimana con questo secondo capitolo del racconto Bad Wolf! Come al solito, io ho controllato che non ci fossero refusi ma non sono sicura che sia effettivamente così… Spero non ce ne siano!

Buona lettura!!

Rientrando dalla porta sul retro sono sorpresa da tre paia di occhi. Tobias e la nonna mi salutano alzando il cucchiaio dalla ciotola di quella che ha tutta l’aria di essere minestra di cavolo, invece mia madre mi rifila un’occhiata torva. Appena uscita dal folto della foresta, ho costeggiato un quarto del perimetro del villaggio per arrivare all’edificio di pietra che fino a due anni fa era casa di mia nonna e mi ci sono sprangata dentro. Mi serviva un posto in cui calmarmi e dove potessi riparare la tracolla. Ci ho passato un’ora buona, controllando che non avessi tagli o ferite visibili, e sono riuscita a trovare anche la mantella di scorta. La appoggio al chiodo infilato nella parete. È identica a quella che ho lasciato nel bosco, perciò nessuno si accorgerà della differenza. Nessuno sospetterà che mi è accaduto qualcosa. Se mia madre intuisse che un lupo mi ha attaccata, sarebbe la fine. Impazzirebbe. «Sei in ritardo» si avvicina al camino, dove sobbolle un pentolone mezzo pieno, e versa un mestolo di zuppa in una scodella, dopodiché lo appoggia con un gesto secco sul lato del tavolo più vicino a me. È furiosa. «Mi sono fermata a casa della nonna per riparare la borsa» afferro la cena e prendo posto accanto a Tobias. «Si è impigliata in un ramo mentre rientravo» La zuppa calda è un toccasana, sia per lo stomaco, sia per i nervi. Il calore mi da un po’ di stabilità e la certezza di essere in un territorio che conosco, di poter affrontare il da farsi con la mente lucida. Le gambe tremano ancora un po’ ma finché riescono a tenermi su, io non vacillo. Tutti hanno bisogno che continui ad andare nei boschi. Un lupo non mi fermerà. «E la mantella?» la nonna alza gli occhi dalla zuppa e mi fissa. «L’hai cambiata» «È la stessa di questa mattina» sorrido. «Mamma ti ho preso la corteccia di castagno. Ce n’è abbastanza per un centinaio di decotti» «Un’altra epidemia di prurito?» Tobias allunga le dita verso il collo, dove i funghi dell’inverno scorso gli hanno lasciato delle macchioline rosa scuro. Per evitare che grattasse le croste ho dovuto legarlo al letto e nonostante tutto, non sono riuscita a evitare che gli lasciassero i segni. «Tranquillo, quest’anno le cinghie non si allenteranno» «Quest’anno si spera che non succeda di nuovo, altrimenti i danni non si conteranno» il lato positivo di mia madre colpisce sempre nel segno, specie se è arrabbiata. È capace di gelare il sangue alle persone più di quanto possa fare un predatore dei boschi. «Come vanno le cose con i sorveglianti?» al mio rientro, il registro era già stato firmato nella colonna con il mio nome. Tobias deve averlo fatto prima di smontare dal turno di guardia. «Conb mi fa lavorare parecchio. Ma se si tratta di controllare i registri, direi che ha molta fiducia in me» occhiata furtiva, sorrisetto. Tobias è veramente facile da leggere e anche mia madre e mia nonna capiscono cosa ha fatto oggi e cosa fa sempre per me. Lo sguardo di biasimo di mia madre centra entrambi, ma io sono la sola a risentirmene. Il suo continuo astio per quello che faccio e per i luoghi in cui vado mi fa soffrire. Amo i boschi, ma non ci vado solo per me stessa. Lo faccio per lei, per la nonna, per mio padre e per tutte le persone che vivono nel nostro villaggio. Non sono io ad aver bisogno di tutte quelle medicine. «Papà ha già mangiato?» domando e al cenno di no di mia madre mi alzo e riempio di nuovo la scodella. «Glielo porto io» vicino alla porta della camera mi passa un boccettino di vetro. Dentro, una purea biancastra ondeggia a ogni movimento. Detesto vederlo prendere questo intruglio ma serve a farlo stare meglio, anche se il solo momento che gli è rimasto per stare bene è quando non sente dolore. Con passo felpato entro nella stanza dove dormono i miei genitori e Tobias, cercando di non far spaventare mio padre. La sua testa si muove nella penombra, un soffio leggero come respiro e un nome sussurrato quasi senza voce. Il mio. Mi riconosce sempre. Non mi stupisce che sia sveglio; sono poche le ore in cui riesce a rilassarsi abbastanza da prendere sonno. Sposto la sedia appoggiata alla parete vicino al letto e accendo una candela nuova con il moncherino di quella vecchia. Adesso il viso scavato di mio padre si vede benissimo. La pelle bianca e grinzosa gli segna gli zigomi e gli angoli degli occhi, perennemente chiusi; ha le labbra secche e la pezza che dovrebbe usare per tenerle umide è appoggiata di traverso sul collo. La sposto sulle mie ginocchia mentre mi siedo e lo scopro leggermente, liberando dalla coperta il petto scheletrico. Quando ero piccola era così forte e grande; mi fa male vederlo così. «Melody» mormora e dopo aver posato la scodella sul comodino, lo aiuto a raddrizzare la schiena per mangiare. «Li hai trovati?» chiede, con la voce rotta per lo sforzo. Il cuore mi si spezza. Non avrebbero dovuto dirgli che sono andata nei boschi. «No, papà. Mi dispiace» lo vedo spegnersi e non posso fare nulla per consolarlo. Vorrei dirgli che ho trovato le tracce degli animali che si nutrono dei fiori che tanto vuole ma non è così. Non so nemmeno se esistano davvero. Sciolgo un cucchiaio raso di purea bianca nella minestra e imbocco mio padre finché non la finisce tutta. Lo faccio stendere di nuovo e resto seduta in silenzio accanto a lui finché il suo respiro non si fa calmo e rilassato. Era a quei fiori che pensava nel sussurrare il mio nome. Sono chiamati Blue Melody, per via del loro colore, ma al villaggio sono conosciuti come Melodia di lacrime, perché credono che siano in grado di curare qualsiasi malattia e che possano persino vincere la morte in cambio di alcune lacrime. Sono tutte stupidaggini e nessuno ha mai visto davvero un fiore di Blue Melody. Ma mio padre si aggrappa alla loro esistenza come un disperato e io non riesco a cancellare le sue speranze. Fino a qualche anno fa li cercavo, ma adesso ho smesso di farlo. Sono stanca di inseguire qualcosa che non esiste. Bagno la pezza nel catino di acqua accanto al letto e tampono per un po’ le labbra di mio padre. La malattia lo sta consumando sempre di più; giorno dopo giorno le sue condizioni peggiorano e nessuno è riuscito a capire quale sia la causa del suo male. Tutto ciò che possiamo fare è sciogliere quella purea bianca nel cibo e calmargli il dolore. Uscendo dalla camera mi ritrovo faccia a faccia con mia madre. Ha ancora la stessa espressione dura. Prende la scodella e la boccetta senza dirmi nulla, ben sapendo che un suo silenzio fa più male di un rimprovero. Non parlarmi era la punizione che adottavano quando ero piccola; fingevano che non esistessi finché non ero io a chiedere scusa. Adesso può anche comportarsi come se non fossi qui, ma per quanto mi ferisca non le dirò che mi dispiace di essere andata nei boschi. Mi siedo di nuovo al tavolo, dove Tobias sta schiacciando nel mortaio alcune radici di artemisia che ho raccolto oggi. I suoi movimenti non sono fluidi come vorrebbe la nonna, che lo tiene costantemente sotto controllo, ma ha abbastanza forza da ridurre tutto in una pappetta grossolana in poco tempo. Gli do il cambio quasi subito, sia perché deve tornare ai cancelli per fare la guardia di notte, sia perché la nonna vuole insegnarmi delle nuove ricette. La nostra famiglia si occupa di rimedi da otto generazioni, trasmessi dalla capofamiglia più anziana, e nel villaggio siamo gli unici a usare ancora le piante selvatiche. La nonna mi mette davanti ad un volume enorme, pieno di ricette e di descrizioni di piante. Le mani le tremano mentre lo apre ma cerca di trattenere i movimenti involontari quel tanto che basta per non lasciarsi sfuggire la carta. Sulla pagina fissata dietro la copertina è disegnata una mappa dei boschi attorno al villaggio, con indicate le posizioni precise di alcuni alberi secolari e delle piante che crescono lì attorno. Il mio primo incarico è controllare se i nomi delle piante raccolte oggi sono già segnati nei luoghi dove le ho trovate; aggiungo solo “erica” nella zona pianeggiante sopra la collina. «Melody fa’ attenzione» la nonna solleva dalla mappa la mano con cui non sto scrivendo. Il polpastrello dell’indice è cosparso di inchiostro e sulla carta c’è una chiazza nera invece della piccola traccia che dovrebbe rappresentare la depressione nelle quale ho rischiato di cadere oggi. L’ho completamente cancellata, ho continuato a sfregare la carta finché il calore del mio corpo non ha sciolto l’inchiostro. Una parte di me vorrebbe sciogliere in quel modo anche il ricordo di ciò che ho visto. Lascio immediatamente cadere la piuma sul tavolo e mi alzo per prendere dell’acqua, un pennellino e il mio coltello. Mi sembra di soffrire dello stesso male che tormenta la nonna mentre cerco di rimediare al danno che ho causato; non riesco a mantenere la presa attorno al pennello e devo sforzarmi più volte di tenere la mano ferma nel passarne la punta umida di acqua sulla pagina. Ripeto l’operazione finché non resta solo un alone grigiastro e poi appoggio il libro dal lato del tavolo più vicino al caminetto, aspettando che la carta asciughi abbastanza da poter raschiare via la macchia senza romperla. Fortuna che mia madre si è ritirata per la notte poco dopo che Tobias se n’è andato, altrimenti mi avrebbe guardato storto anche per aver rovinato la mappa delle erbe. La nonna non è entusiasta per quello che è successo, ma almeno non mi rimprovera per ogni cosa che faccio. Credo abbia capito che mi è successo qualcosa; la nonna è sempre perspicace quando si tratta del mio rapporto con la foresta, però non sono sicura che i suoi pensieri si siano avvicinati alla verità. Ha vissuto una vita intera a contatto con quel luogo ma nemmeno lei potrebbe immaginare che esiste una creatura come… No, non può sapere cosa ho incontrato. La guardo mentre sfoglia il libro, senza più voglia di insegnarmi nulla per questa sera. Ha la schiena curva, girata verso la bocca del camino per tenerla al caldo, e le mani affusolate e grinzose, come vecchie pagine vissute e consumate dal tempo. Ricordo che da bambina passavo molto tempo a casa sua, la guardavo preparare infusi e medicine per tutto il giorno; una volta ho assistito mentre curava un giovane cacciatore ferito e allora quelle mani così capaci e instancabili sono diventate il simbolo di tutto ciò che io avrei voluto essere. Vedere come tremano adesso è qualcosa che mi lascia ogni volta un senso di tristezza, lo stesso che provo guardando mio padre nel suo letto. Le persone che fino a ieri mi hanno protetta, oggi hanno bisogno che sia io ad avere cura di loro. Se potessi stringere un patto con il tempo, chiederei di restituire loro ciò che è già trascorso. Se i Blue Melody esistessero, piangerei fino a non avere più lacrime.

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